Marta Sordi.

MARTA SORDI
Quando la Storia si fa interessante

Lo scorso 5 aprile è morta la grande studiosa di Storia romana e greca. Per lei il Vangelo era uno stimolo e un punto di partenza per ricerche sorprendenti
Stefano Zurlo

A chi pensava che il Cristo della storia fosse solo il Gesù Bambino del presepe, una favola o poco più, rispondeva con una mitragliata di nomi, di date, di personaggi. Marta Sordi, storica di razza e professoressa di grande chiarezza e di forti passioni, se n’è andata il 5 aprile scorso. Aveva ottantatre anni, aveva insegnato per una vita Storia greca e romana alla Cattolica, fino a quando la salute l’aveva assistita era rimasta ingolfata fra studi, convegni, pubblicazioni. Marta Sordi si muoveva a proprio agio fra la Gerusalemme di Ponzio Pilato, il prefetto della Giudea, e la Roma di Tiberio e degli imperatori. La sua lettura degli avvenimenti era netta. Punto primo: non è vero, come sostiene certa critica sinistrese, che il cristianesimo primitivo fosse lontano dal potere e imbevuto di pauperismo. Anzi, la Chiesa delle origini aveva trovato terreno fertile nella mentalità aperta, pragmatica, elastica di Roma, una Roma che lei paragonava, con tutte le differenze del caso, all’America di oggi. Nell’impero romano, e poi nella stessa capitale, la predicazione degli apostoli aveva trovato terreno fertile e progressivo ascolto. Certo, come aveva spiegato in una delle interviste concesse a Tracce, e poi in un incontro al Centro culturale di Milano, c’erano state le persecuzioni, terribili, e il cristianesimo, religione diversa da tutte le altre e irriducibile, era rimasto border line, anzi illegale, per trecento anni, ma era anche vero che c’erano stati in quei tre secoli periodi di tolleranza e che Tiberio, sì proprio lui, aveva proposto al Senato, anche se senza successo, di legalizzare i discepoli di Gesù.
Quella situazione difficile, a tratti insostenibile, si era finalmente sbloccata con Costantino. Costantino, e questo è un secondo punto chiave della sua interpretazione, si era convertito non per interesse o per convenienza, ma, come registrato da un panegirico pagano del 313, per un’esperienza particolare, inspiegabile, forse mistica. Non era solo un uomo di potere e neppure un esaltato o un fanatico, perché in qualche modo a bilanciare quell’affermazione così coraggiosa, la Sordi aggiungeva, con la pazienza della studiosa, un’altra considerazione importante: Costantino e con lui la cultura pagana più avanzata si era già naturalmente avvicinato ad una sorta di monoteismo, sposando il culto del dio Sole, il summus deus. Onnisciente e onnipotente. La cultura romana, quella stessa che aveva adottato e poi punito nel sangue delle arene la novità che veniva da Gerusalemme, aveva mantenuto quell’apertura mentale, in qualche modo quella libertà necessaria per confrontarsi con il mistero della croce. C’era nella società, sin dai tempi di Cesare Augusto e Tiberio, un modo di ragionare in grado di cogliere la specificità e l’originalità dei Vangeli e questo la Sordi aveva cercato con acume e perspicacia nelle pieghe degli avvenimenti. Ma poi, lei stessa, leggendo le fonti, spesso anticristiane, annotava quel quid che traspariva dai testi. La sporgenza del mistero che non si può imbrigliare una volta per tutte nei ragionamenti e nelle analisi. Ragione e fede, intrecciate dentro la storia e complementari per capire, almeno per chi la storia scruta impugnando il binocolo della ricerca.
Lei, per una vita, ha cercato di togliere a quella storia, la Storia da cui è nata la nostra civiltà, quella patina da romanzo per anime candide, frutto di una cultura razionalista di matrice protestante e illuminista. La sua bravura almeno sul versante alto di una divulgazione limpida e illuminante, è quella di aver sempre saputo tenere il filo della narrazione in quell’andirivieni caotico di personaggi fra la Palestina e la Roma di quegli anni lontani. Per la Sordi, il Vangelo era uno stimolo e un punto di partenza per ricerche a loro modo sorprendenti e chi l’ascoltava si chiedeva come mai non si fosse mai posto domande che, a posteriori, parevano irrinunciabili. Come le risposte che lei dava. Puntuale. Per esempio, nel raccontare la morte di Stefano, il primo martire, forse nel 34, quattro anni dopo la crocifissione di Nostro Signore. Perché Stefano era stato lapidato? E perché non si era celebrato un processo regolare, come per Cristo? C’era stato - ecco la sua tesi - un colpo di mano, un tumulto sfuggito di mano alle autorità e concluso con la lapidazione di Stefano.
Risultato: Pilato mandò una relazione preoccupata a Tiberio e Tiberio spedì in Medio Oriente il suo legato, Vitellio. Vitellio, come racconta Flavio Giuseppe, destituì Caifa, il sommo sacerdote che aveva violato la legge con quella lapidazione, ma nello stesso tempo rimandò a Roma anche Pilato che sul monte Garizim aveva usato le maniere forti con i samaritani, alleati dei romani e nemici dei giudei nel complicato scacchiere di quelle terre. Tutte quelle vicende, la storica le aveva raccontate nel libro I cristiani e l’impero romano, pubblicato da Jaca Book nel 1984 e ritornato negli anni scorsi con una nuova edizione di successo. Leggerlo è il modo migliore per non disperdere la lezione della sua autrice, adesso che non c’è più.