La presentazione del libro di Massimo Borghesi.

Cosa fa «vincere nella storia»?

Sempre più spesso la religione è invocata come ideologia di guerra. Se ne è discusso all'ultima presentazione del libro di Massimo Borghesi: l'antidoto alla teologia politica è la libertà fondativa del singolo. E questa non è solo "roba per filosofi"
Eugenio Andreatta

Uno può chiamarla con la sua definizione più tecnica, teologia politica, e pensare che sia roba da filosofi. Poi cominci a sgranare un attimo il concetto e ne esce qualcosa che assomiglia molto alle prime pagine dei quotidiani di questi giorni. Gente incappucciata che un giorno sì e uno no decapita malcapitati in nome di un dio più potente che misericordioso. Gente che inizia e conclude in nome del Signore discorsi con cui proclama il bombardamento di un Paese distante decine di migliaia di chilometri. Oppure, per restare a casa nostra, gente che insegna il catechismo al Papa, tirandolo per la tonaca per convincerlo a benedire missili. Che colpiranno solo infedeli, beninteso.

La presentazione del saggio di Massimo Borghesi Critica della teologia politica, promossa martedì 30 settembre dall’Associazione culturale Rosmini al Centro Altinate di Padova, ha sottolienato che di teologia politica il mondo è saturo. E che la religione oggi più che mai è invocata come ideologia di guerra. Come se non si potesse essere religiosi se non contro qualcuno. «Siamo in una guerra mondiale a pezzi», ha detto direttore di Tgcom24 Alessandro Banfi riprendendo il giudizio di papa Francesco, «la teologia politica ne è la giustificazione». E quanto alla fede è come se si tornasse indietro di duemila anni. A Roma, nei pressi della Stazione Termini c’è il Museo nazionale romano, con una delle più importanti collezioni di arte classica del mondo. Custodisce capolavori come il Pugile, il Principe ellenistico e la Niobide dagli Horti Sallustiani. Ma quello che ha colpito Banfi è soprattutto l’Augusto Pontefice Massimo. «Impressionante: l’uomo più potente del mondo con il capo velato, come i sacerdoti romani durante i riti sacri». Imperatore e papa insieme.

Il cristianesimo manda all’aria tutto questo. «Nessuno, neppure un uomo, desidera omaggi forzati», scrive Tertulliano nel 197. E quindi «sia lecito che uno adori Dio, l’altro Giove». «Ubi fides ibi Libertas», codificherà poi Ambrogio. Una libertà che non è solo per i cristiani, ma per tutti. Principio tradito mille volte, evidentemente. Ma che rappresenta il più potente argine alla prepotenza di chi mescola le carte tra Dio e Cesare.

Esemplare, per venire ai nostri giorni, il caso di Giovanni Paolo II. Finché ha benedetto l’abbattimento dei muri, tutti con lui. Poi, ora ha precisato Borghesi, «appena si è opposto alla Guerra del Golfo voluta da Bush, i sostenitori più entusiasti si sono trasformati nei critici più accaniti». Il Papa è vecchio, è stanco, ha tirato i remi in barca. E giù con gli editoriali degli intellettuali “di riferimento” «anche per tanto mondo cattolico, i Ferrara, i Galli della Loggia». Nessuno naturalmente ha ascoltato la voce della Chiesa irachena, che di lì a poco verrà smembrata. Borghesi ha moltiplicato gli esempi, tra contesto internazionale e italiano, indicando gli autori di riferimento della teologia politica, ma anche proponendo antidoti. Che non vanno cercati lontano, sono nel cuore stesso della Chiesa.

In Agostino, soprattutto attraverso la splendida lettura che ne fa Ratzinger, emergono con chiarezza. «Il cristianesimo è grazia, dono del Signore», ha affermato Borghesi, «imporlo con la forza significherebbe andare contro la sua stessa natura. Può comunicarsi solo mediante un incontro, quindi attraverso esempi, testimonianze, non solo battaglie». Che pure quando servono vanno fatte. Diffidare però da chi dipinge la vita cristiana come uno scontro continuo. «Il cristiano deve favorire l’incontrabilità, l’amicizia, non lo scontro. Non ha bisogno di nemici per esistere».

Non c’è nessun bisogno, ad esempio, di demonizzare epoche storiche. «Sulla modernità», ha precisato Borghesi, «senza buonismi o semplificazioni, Ratzinger ha scritto pagine poco conosciute di un’apertura sorprendente». E la sua lettura del Concilio Vaticano Secondo, soprattutto sul tema della libertà religiosa, mostra che la Chiesa può confrontarsi con simpatia con il moderno non mettendo la propria identità tra parentesi, ma andando ad attingere alle sue fonti più pure, soprattutto ai Padri della Chiesa. «In questo momento storico abbiamo un grande punto di riferimento», ha concluso il filosofo, «questo Papa che ci invita continuamente a non sostituire Cristo con i valori cristiani». In fondo, ha osservato, «non era questo anche il richiamo costante di don Giussani?»

Il fatto è, come ha ricordato Alessandro Banfi riandando a un dialogo di tanti anni fa con don Giacomo Tantardini (si parlava del settimanale Il Sabato di cui Banfi è stato direttore), «in fondo anche noi abbiamo il problema di vincere nella storia. E invece Gesù non ha vinto, è morto in croce». È vero, dirà pochi giorni dopo don Giacomo in un’omelia. Anche noi spesso siamo come tutti gli altri. Vogliamo vincere facile. Ma su un punto l’amico giornalista si sbagliava. Perché l’ultima parola non è la croce, è la risurrezione. Non sconfitta, ma vittoria. «Gesù vince nella storia». Con un piccolo nota bene, però. «Vince come vuole Lui, non come pensiamo noi». Non è questo il vero argine alla teologia politica?