"Come una quercia" di D. Giandrini.

Una briciola per sfamare il mondo

Davide Giandrini, attore e regista, racconta il suo ultimo spettacolo sulla figura del giovane martire. Del perché ha scelto la storia del seminarista ucciso dai partigiani e del suo lavoro: «Se non è preghiera, il teatro è solo esibizione»
Alessandro Giuntini

«Quello che mi è successo è l’interesse per la briciola. Come la briciola è potuta diventare pane per il mondo. Lui era una briciola. E questa briciola ha prodotto nutrimento per me e per migliaia di persone». È Rolando Rivi la «briciola» di cui parla Davide Giandrini, classe ’72, attore e regista, autore di Come una quercia. Storia di Rolando Rivi, seminarista martire (Itacalibri, 2015) e dell’omonimo spettacolo che sta girando teatri e chiese di varie città d’Italia. Tracce lo ha incontrato per farsi raccontare il perché di questo lavoro che lo ha avvicinato alla figura del piccolo seminarista emiliano, ucciso dai partigiani nel 1945 e proclamato beato il 5 ottobre del 2013.

Perché ha voluto realizzare uno spettacolo su Rolando Rivi?
Appena ho conosciuto la sua storia, mi sono trovato subito dentro un interesse per lui. Per la sua “verginalità”, il suo candore. E per la sua vicenda, terribilmente potente: non solo per la crudeltà di quello che gli hanno fatto, ma soprattutto per la testimonianza che ha regalato al mondo.

Come ha conosciuto la sua storia?
Ho scoperto la sua esistenza solo la primavera scorsa, leggendo in rete. E ho iniziato subito a documentarmi. Ho letto vari testi, tra cui quelli di Emilio Bonicelli e una biografia scritta tanti anni fa. Poi, dopo aver incontrato Daniele Bentivegna, che è il protagonista dello spettacolo, siamo stati insieme a San Valentino, in provincia di Reggio Emilia, dove Rolando è nato e vissuto. Abbiamo visitato la pieve, la sua casa, il suo paesino natale sulle colline. Anche il bosco, dove è stato ammazzato e la porcilaia del casolare dove è stato rinchiuso per due giorni. Abbiamo incontrato il cugino di Rolando, Sergio, con cui abbiamo fatto delle belle conversazioni. Sono entrate a far parte dello spettacolo: ci sono, infatti, cinque momenti video e in due di questi Sergio racconta di quand’erano bambini, di chi era Rolando nella semplicità quotidiana e nelle relazioni. Un altro incontro importante è stato quello con i Memores Domini che abitano nella casa inaugurata l’anno scorso.

Chi altro avete conosciuto a San Valentino?
Abbiamo incontrato Leopoldo Tincani, che era un ragazzino nel ’45 e abitava a cento metri da dove è stato ucciso Rolando. Andava spesso per i boschi a cercare munizioni. È stato il primo, insieme ad un altro, a vedere il mucchietto di terra e di foglie: lo ha toccato con il piede e ha scoperto il corpo di Rolando. Sono scappati subito via, perché c’erano ancora i partigiani ed era pericoloso. Ecco, la violenza che hanno usato mi colpisce molto. È la violenza per l’abito talare. L’odio per quello che rappresenta. È stata la prima cosa che gli hanno tolto, quando l’hanno portato nella porcilaia. È impressionante la potenza di significato che ha quell’abito.

Che esperienza è stata ed è per lei questo lavoro?
Quello che mi è successo è l’interesse per la briciola: come la briciola, Rolando, è potuto diventare pane per il mondo. Mi è accaduto di scoprire la potenza della testimonianza di una briciola. Che produce e dona nutrimento per me e per migliaia di persone. Quanti vanno in questo paesino altrimenti sconosciuto... Alla sua beatificazione erano in cinquemila! Io considero questo nostro lavoro, per quel che siamo capaci, come poetico, artistico: non mi interessa fare un teatro ammiccante e consolatorio per il pubblico. Lo spettacolo fa accadere la commozione. Quando finisce, la gente arriva con le lacrime agli occhi, commossa, a ringraziarci. O meglio, a ringraziare Rolando. Perché alcuni lo conoscono già, altri lo scoprono. Un’altra cosa che continuo a vedere è la potenza di queste storie nascoste, l’avevo già sperimentata con il testo che ho scritto sulle foibe carsiche, Il sentiero del padre. Noi cerchiamo sempre di mettere la polvere sotto il tappeto, ma prima o poi qualcuno ci passa sopra e viene su un polverone.

Nel testo lei riporta una frase che Rolando ripeteva: «Io sono di Gesù». Come fa un ragazzino ad affermare con così tanta coscienza: «Io sono di Gesù», al punto da accettare il martirio?
Sarò molto schietto: questa cosa bisognerebbe chiederla a Rolando. Altrimenti si rischia di crearci su dei pensieri nostri. Quello che io posso supporre, è che il suo è stato proprio un abbandono all’amore del Padre. Un abbandono totale, che penso sia il passo successivo al dono, è qualcosa che ha a che fare con il misticismo. Non credo sia tanto il frutto di un ragionamento o di una spiegazione logico-razionale, ma qualcosa di più profondo.

Lei ha molto caro il tema del “padre”. È presente anche nel suo testo sulle foibe.
Ho scritto una trilogia sul padre: Parsifal, per cui mi sono fatto aiutare dello psicanalista Claudio Risé, e che tratta del tema della paternità, Più in alto dell’aquila, sul tema della montagna, ma anche sulla paternità, e Il sentiero del padre. Ma mi sono accorto che tutto il mio lavoro era centrato su questo rapporto. Da Pinocchio, che ho scritto con Luca Doninelli, fino a Alla Luna, un testo a quattro mani su Leopardi con Davide Rondoni. Tutto il mio interesse per l’arte, per la bellezza tremenda nell’arte, è in realtà un desiderio di frequentare l’amore del Padre.

Cosa c’entra questo con la figura di Rolando?
Rolando è un occhiolino per farti vedere questo amore. Ed è così forte che, oltre a darti un ritorno di pensiero, ti tocca. Questo mi interessa. Anche nell’arte: ti deve toccare.

Alla fine del testo lei scrive: «In tre parole è racchiuso il dono più grande che Rolando ha lasciato al mondo. Un esempio di amore per Gesù. Questo dono (…) ne racchiude in sé molti altri (…) che spesso sono nascosti, silenziosi, misteriosi (...). Sono doni che come una eco rimbalzano da una persona all’altra. Rimbalzano e toccano il cuore». In che modo stanno toccando i cuori?
Penso ad alcuni miei amici molto schierati politicamente, un po’ ideologici, ma simpatici, che si sono appassionati alla sua storia. Per esempio, c’è Enrico, che è un militante convinto, però ha voluto subito il libro, non appena è uscito. È venuto a casa mia, perché era rimasto stupito da quello che avevano fatto a questo ragazzino e dalla sua figura. Se ne innamorano tutti! Soprattutto le mamme: molte di loro rivedono in Rolando i loro figli adolescenti. E glielo propongono. E anche i ragazzi restano colpiti...

Lei ha scelto di usare il monologo come modalità teatrale. Perché?
È la forma che io ho amato da subito nel teatro. Nei miei lavori c’è, da una parte, l’intrattenimento comico-musicale che viene da Gaber e Jannacci. Ho avuto la fortuna di conoscere bene entrambi. Dall’altra parte, c’è lo scontro che la parola “propone” nel monologo. L’ho sperimentato per la prima volta, innamorandomene, nel Factum est di Testori. Il teatro per me è il luogo della preghiera. Se non è preghiera, lo spettacolo è solo un’esibizione.

Per informazioni www.davidegiandrini.it