Giovanni XXIII firma l'enciclica <em>Pacem in terris</em>.

Vera oggi come cinquant'anni fa

Il 4 aprile, l'Università di Chicago ha ospitato un incontro sull'enciclica di Giovanni XXIII, promosso dal Crossroads Cultural Center. Un testo che «riflette i problemi del periodo in cui è scritto», ma attuale, perché «parla all'uomo di tutti i tempi»
Beatrice Lepori

L’enciclica Pacem in terris. Un testo che non conosce i segni del tempo, e che è vero oggi come cinquant’anni fa. Questo è stato il fulcro dell’incontro che si è tenuto il 4 Aprile al Max Palevsky Cinema all’Università di Chicago, in onore del 50° anniversario dell’intervento di Papa Giovanni XXIII sulla pace.
L’evento era patrocinato dal Dipartimento di Scienze sociali del Lumen Christi Institute, dell’università di Chicago, e dal Centro per i Diritti civili e umani della Notre Dame Law School. Tra i relatori, Paolo Carozza, direttore del Centro di Notre Dame, monsignor Roland Minnerath, arcivescovo di Digione, Joseph Weiler, docente alla New York University, Russ Hittinger, membro della Pontificia Accademia delle Scienze sociali dell’Università di Tulsa, in Oklahoma, e Mary Ann Glendon della Harvard University, ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede.

L’incontro si è aperto con l’introduzione di Carozza che ha subito sottolineato la grande eco che le parole di Papa Giovanni hanno avuto e hanno oggi, grazie soprattutto al fatto che si rivolge «a tutti gli uomini di buona volontà» e non soltanto ai cattolici: «Come può questa enciclica essere guardata oggi?»
Il primo a rispondere è stato Minnerath, che ha subito parlato dell’importanza di questo testo, a partire dal fatto che unisce la ricchezza del passato, e allo stesso tempo apre nuovi orizzonti. Non solo: anche il suo tentativo di rivolgersi all’uomo moderno è un carattere fondamentale. L’enciclica, ha detto, «è un tentativo di riconciliare l’individualismo moderno», in cui siamo immersi e che allora iniziava a prendere piede, «con l’oggettività della realtà, dell’ordine creato da Dio, inscritto nell’essere umano». Per Minnerath, l’uomo ha da sempre la tentazione di creare un ordine nella natura prescindendo da Dio. Etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse, appunto. Se così accade, la verità non è più un obbiettivo perseguibile e lascia il posto al consenso. È l’hobbesiano «non veritas sed voluntas fecit legem»: è la volontà a fare la legge, non la verità. Per cui l’uomo si sforza di costruire sistemi di civiltà basati solo sul comune consenso. «Il primo tentativo di superare questo individualismo è nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948», continua Minnerath. È qui che per la prima volta si vede riconosciuta la stessa dignità in tutti gli uomini. Lo Stato diventa uno strumento per l’uomo e, di conseguenza, viene negata la sovranità dello Stato assoluto sugli individui.

Allo stesso modo, la Chiesa non è restata indifferente a questi mutamenti secolari e ha cercato un suo ammodernamento. Nel 1963 la Pacem in terris si colloca proprio nell’alveo di questo processo di aggiornamento della dottrina cristiana in risposta ai problemi del tempo. Ma la pace di cui Giovanni XXIII parla, spiega ancora l’Arcivescovo, non è solo la cessazione della guerra. Di più, pone l’accento su un “ordine” inscritto nel cuore umano. Ed è da qui, da questo antecedente, che nascono i diritti umani.
«La Pacem in terris muove da un punto obiettivo verso diritti soggettivi. Solo così si può guardare all’individuo: a partire da quell’ordine».
Ma se da un lato quello che emerge tra le righe della Pacem in terris è un nuovo linguaggio, dall’altro le parole di Papa Giovanni non mostrano alcuna discontinuità con la tradizione della Chiesa che ha sempre parlato di diritti in questi termini. «La legge è inscritta nella natura umana. Noi abbiamo diritti nella misura in cui essi sono creati dal Signore». Quello che è dato all’uomo è «la responsabilità di realizzare quell’ordine», in una costante interazione tra la legge immutabile e la sua attuazione in contesti e tempi sempre diversi.

Joseph Weiler attacca il suo intervento invitanto la platea a rileggere con attenzione le parole di Giovanni XXIII. Questa, come le altre encicliche, ha sottolineato Weiler, ha due caratteristiche che si compenetrano. Da una parte, è figlia del suo tempo, e quindi riflette i problemi del periodo in cui è scritta; dall’altra, potrebbe essere scritta in ogni epoca, perché parla del e all’uomo di tutti i tempi. Vero è che questa riflette una delle più grandi battaglie degli anni Sessanta, quella per diritti umani. Ma allora, si chiede Weiler, «perché questo testo è apparso tanto così inaspettato e innovativo?». La risposta sta in alcune caratteristiche peculiari di quest’enciclica. Ad esempio, è che in essa trovano uguale spazio i diritti e i doveri, mentre in tutte le carte dei diritti umani del tempo, i doveri non sono mai menzionati. Il riferimento ai doveri e alla responsabilità, per Weiler, va letto anche nella prospettiva politica mondiale che si andava via via modificando in quegli anni, soprattutto per quanto riguarda la presenza di un’autorità internazionale per dirimere le dispute fra gli Stati. Weiler ha chiuso il suo intervento citando Benedetto XVI e ricordando la grande valorizzazione che fa il cristianesimo della ragione umana e la necessità che i cristiani scendano nel dibattito pubblico facendo appello ad essa.

Il professor Russ Hittinger, a seguire, ha spostato il tema mostrando la vicinanza tra i contenuti dell’enciclica di Giovanni XXIII e il pensiero di sant’Agostino. E non solo. Uscita solo pochi mesi dopo la Pacem in terris, anche la lettera dal carcere di Birmingham di Martin Luther King presenta numerose analogie con il testo papale. Per Hittinger entrambi si appellano alla dignità umana e ai diritti senza bisogno di dimostrarne l’esistenza. «Qualcosa che oggi sarebbe impossibile».
L’ultima a intervenire, ma non certo per importanza, è stata Mary Ann Glendon, che ha raccontato di come lei altri cattolici americani avevano accolto l’enciclica nel 1963: «Fu un evento! Tutti noi giovani cattolici rimanemmo impressionati». Per tante ragioni, ha detto: «Due su tutte. Prima di tutto, il Papa parlava a tutti: “ tutti gli uomini di buona volontà”. E poi, non potevamo credere, allora, che il Papa nel 1963 intervenisse così proprio sui temi dei diritti umani di cui ci stavamo occupando in quel periodo». Fu sorprendente, insomma. Anche dentro la Chiesa stessa. Certo, ha continuato la Glendon, ribadendo le preoccupazioni già espresse dagli altri intervenuti, parlare di questi temi presenta sempre dei rischi. «È accaduto, sia alla Pacem in terris che alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che nel tempo che tante affermazioni e tanti elementi siano stati distorti, se non addirittura negati».