Il poeta arabo-americano Khaled Mattawa.

La mia Libia e il lavoro della speranza

Khaled Mattawa, scrittore e poeta libico, racconta la sua storia, dalla caduta di Gheddafi all'insegnamento alla ricerca di una «poesia autentica». Il fil rouge, la certezza di poter cambiare il «quadro d'insieme». Come? «Lavorando sui particolari»
Madeleine Tanzi

Il noto scrittore e affermato traduttore letterario arabo-americano Khaled Mattawa è autore di quattro raccolte di poesia e ha ricevuto un “Academy of American Poets Award”, il “Pen Award for Poetry in Translation” e molti altri premi di prestigio nel panorama letterario americano. Affascinata dalla chiarezza e dal profondo e penetrante impatto delle sue parole, e dal suo incessante desiderio di indagare il valore delle radici storiche nella quotidianità («No, non ho perso la mia lingua. È come un manto ereditato da tua madre…»), la rivista Traces ha incontrato Khaled Mattawa, Assistente universitario di Scrittura Creativa all’Università del Michigan, in occasione di un recente convegno di scrittori a Boston, per approfondire con lui uno dei temi ricorrenti che stanno alla base di molte delle sue opere: la speranza. Mattawa, cittadino statunitense originario di Bengasi, in Libia, propone il suo punto di vista originale, profondamente personale e attuale in un’epoca caratterizzata da dibattiti tra diversi schieramenti “religiosi” e politici.

La sua poesia Now that We Have Tasted Hope (Ora che abbiamo gustato la speranza), pubblicata per la prima volta nel 2011 sulla rivista Atlantic, termina con questi versi: «Ora che abbiamo gustato la speranza / Questa crosta guadagnata col sudore della fronte, / Preferiremmo morire piuttosto che cercare qualsiasi altro gusto della vita, / Qualsiasi altro modo di essere umani». Può spiegarci questa certezza sul fatto che la gente non sarebbe più scesa a compromessi sull’«essere umani», che ispirava la sua creatività all’epoca?
Questa poesia è molto politica, è stata scritta all’inizio della rivoluzione libica, la Primavera araba. A Bengasi, dopo la caduta del regime che aveva dominato con la violenza per 42 anni, la speranza stava davvero rinascendo: la gente si era riversata nelle strade, dava vita a organizzazioni e a una stampa libera, poteva dormire tranquilla, era fuori di sé dalla gioia. Ma le sfide arrivarono ben presto, con la minaccia che il regime potesse tornare e riconquistare la città. Noi libici eravamo ormai così cambiati da questo avvenimento, dalla possibilità di una speranza, che non potevamo più tornare indietro. È una poesia che si rivolge alle aspirazioni di un popolo: è molto meglio sperare e morire (e qualcuno l’ha fatto) che continuare a vivere nella miseria.

Lei ha lasciato la Libia quando era ancora adolescente. Come immaginava il suo futuro, e come si è realizzato poi?
Già a quindici anni mi rendevo conto di quanto il regime stesse rendendo spaventosa la mia vita e quella della mia famiglia. Il mio sogno era di tornare in Libia, e di fare qualcosa di concreto, nel mondo degli affari o dell’architettura… Ma la mia permanenza negli Stati Uniti come in una sorta di esilio mi ha spinto a leggere e a riflettere sul problema dell’identità e della sopravvivenza, sul significato della religione e su come sia possibile essere un musulmano nel mondo di oggi: tutte queste problematiche non sono questioni legate al lavoro. Mi resi conto che non potevo tornare in Libia, e dopo tre anni al college scelsi di dedicarmi agli studi umanistici.

Cosa l’ha spinta a scegliere in particolare la poesia?
Terminato il primo ciclo di studi universitari di scienze politiche ed economia, decisi di cimentarmi nella scrittura poetica, perché mi sembrava che avesse un potere unificante. Perciò mi iscrissi alla laurea specialistica in Scrittura Creativa. In questo periodo di importanti decisioni la poesia mi ha aiutato a leggere il mio passato e a ritrovare le mie radici comprendendo le mie origini, preparandomi a diventare un cittadino, un abitante del mondo.

Quindi le sue origini hanno influenzato profondamente tutte le sue decisioni, come pure la sua poesia…
Ovviamente la mia vita è stata plasmata dalla dittatura in Libia, dalla follia, dalla pazzia. Se sei una formica e trovi una grossa pietra sulla tua strada, non perdi tempo a lamentarti, cerchi semplicemente di aggirarla. È così che molti di noi affrontavano il regime. Se penso a tutto ciò che mi è stato dato, il fatto di riavere la Libia, una Libia senza Gheddafi, è forse il dono più grande. Riguardo alla poesia di cui ha parlato, io volevo scrivere una poesia che durasse, che rispecchiasse tutte le mie speranze e i miei dubbi, accanto a tutte le mie speranze per la Libia… ma conosco anche la natura umana e so che il mio popolo non possiede una tradizione di democrazia, e non sono nemmeno le persone più tolleranti al mondo. Non volevo scrivere un’opera di propaganda – o una semplice e insulsa cronaca di attualità – ma una poesia che fosse vera. Quella poesia è qualcosa a cui devo afferrarmi: se la situazione non lascia più speranza, significa forse che ho scritto una brutta poesia? Io conservo ancora la speranza, e desidero che la mia poesia rimanga autentica.

Oltre che poeta, lei è stato anche commentatore politico per i media americani. È riuscito a promuovere anche in altri modi questa speranza di cui scrive?
Sì, in effetti abbiamo trascorso tutto il 2012 in Libia. Mia moglie e io abbiamo dato vita a una associazione artistica e abbiamo collaborato all’organizzazione di un festival internazionale di poesia. Abbiamo aperto anche una sala cinematografica e organizzato un festival cinematografico nella città vecchia. Questo Paese è stato privato della sua cultura: i cinema sono rimasti chiusi per trent’anni. I giovani non hanno avuto una educazione sana, le istituzioni vacillano… Non ho idea di come si possa studiare facendo tante vacanze: in un semestre di sedici settimane ci sono solo sei settimane di lezione. Io insegno lì Lingua e Letteratura Inglese, e quando chiedo quanto lavoro posso richiedere ai miei studenti loro mi rispondono: «Quasi niente!» Si devono laureare in Inglese e non riescono nemmeno a finire un libro! Ma l’apparato educativo va avanti, perché tutti vogliono conseguire i loro due livelli di laurea, perché così otterranno le relative sovvenzioni dallo Stato. È deprimente, e viene da chiedersi: «Cosa posso farci?». Forse se continuo a insegnare qui ancora un po’ riuscirò a dare il mio piccolo contributo – fosse soltanto perché io non ho ancora assorbito il cinismo e l’indifferenza che hanno ormai invaso la cultura di questo Paese.

Partendo dai suoi studenti…
È questo che fa la differenza. L’origine della speranza è proprio qui. Si comincia dalle piccole cose e magari si riesce a fare sempre di più. E quando ottengo dei risultati, la speranza si rinforza. Guardare al quadro d’insieme è più difficile, ma non c’è quadro d’insieme senza i piccoli risultati.

Lei è una persona dalla doppia cittadinanza, che va su e giù dal Medio Oriente: quali sono, secondo lei, le prospettive di dialogo?
Penso che la possibilità di dialogo sia molto importante, ma c’è tanto sospetto reciproco che ruota attorno ai giochi di potere e ai cambiamenti politici. Il Quatar, per esempio, è una società autocratica che ha appena mandato in prigione un poeta per aver criticato il governo. All’inizio appoggiava le rivoluzioni arabe, e due anni dopo manda uno in prigione per critiche allo stato. Questo genere di cambiamenti sta trasformando una rivoluzione culturale a favore della democrazia in una rivoluzione religiosa settaria. Io non so davvero come comprendere la politica con gli occhi di un artista, intellettuale e laico.. La rivoluzione aspirava a una democrazia in cui esista una reale libertà e la religione non sia usata come un bastone per ridurre al silenzio la gente. I governi occidentali vogliono capire chi vincerà, e quali accordi si potranno stringere col vincitore. Personalmente non so quale tipo di dialogo sia possibile in un contesto del genere.

Non intravvede alcuno dei valori eterni che analizza nella sua poesia, nessuna giustizia?
Credo che la gente desideri la giustizia. La speranza è un lavoro: significa procedere verso qualcosa che ritieni possa incidere sul mondo. C’è una frase che ho sentito da un mio mentore, George Thoreau: «Feriti a milioni, guariti uno per uno». Puoi lanciare una bomba e uccidere diecimila persone, ma non puoi guarirne diecimila insieme; bisogna aiutare ciascuno singolarmente, in base ai suoi bisogni. Perciò la speranza è molto più faticosa della disperazione e della distruzione. Quanto tempo ci vuole per distruggere una casa? Ci sono voluti anni per costruirla, ed essa custodisce le memorie di una vita, ma bastano pochi istanti per far crollare tutto. Bisogna solo sperare e continuare a lavorare, e restare umili.

E questo cosa significa per lei?
Personalmente, io amo i particolari. Non so staccarmi dai particolari. Ed è questo che mi fa restare umile: io non farò mai un progetto grandioso. Io sento le cose. Secondo me, tutto sta nell’essere accurato nelle piccole cose. Forse saprò far crescere una coscienza della responsabilità che ciascuno di noi ha. Lo puoi cogliere in un’opera d’arte, in cui ogni dettaglio è minuziosamente curato, rendendola stupenda. Il microcosmo di una piccola opera d’arte e dell’infinito in essa racchiuso può aiutarci a comprendere che le nostre società sono simili a essa. Se vogliamo che la nostra situazione sia migliore, dobbiamo tener presente ogni singolo dettaglio: lavorando sui particolari si può cambiare anche il quadro d’insieme.

In questo contesto, dove trova ispirazione per la sua poesia oggi?
In questo periodo sto riflettendo molto sulla storia, la Libia, la mitologia. Mi piacerebbe fare una raccolta di brevi poesie da cui si possa cogliere che questa terra è e possiede molto più di quanto si noti a prima vista. Scriverò in inglese, e spero di riuscire ad aiutare la gente a cambiare idea riguardo al proprio Paese; vorrei far vedere il valore del suo spessore storico. Nel mio altro libro il tema ricorrente è l’amore. Sto riflettendo sul dolore, l’amore e la morte. E sulla loro connessione con l’araba fenice. L’araba fenice, trovando la morte avvolta tra le fiamme, ci sta dicendo: «Quando tutto ciò sarà finito in cenere, perché io possa nuovamente risorgere?». Forse le cose devono peggiorare – ridursi in purissima cenere – prima che la fenice possa nuovamente risorgere.