Giorgio Caproni.

La letterina e le fucilate

Critico, maestro elementare, violinista. E, soprattutto, uno dei più grandi poeti del Novecento. Il 22 gennaio ricorre il venticinquesimo anno dalla morte. Ritratto di un «cacciatore», e di «quell'accordo irrisolto» (da Tracce, giugno 2001)
Davide Rondoni

Non posso dimenticare che uno dei motivi principali per cui, dopo il mio primo libretto edito con Giampaolo Piccari presso Forum, continuai a scrivere, dipende da un gesto di Giorgio Caproni. Avevo vent’anni. Mi arrivò una sua letterina, scritta a macchina. Diceva che come al sarto che tasta la stoffa capita di riconoscere che è buona, così gli era avvenuto con quel mio libretto che si chiamava La frontiera delle ginestre. E mi indicava le pagine che più gli erano piaciute e quelle su cui, a suo parere, dovevo fare attenzione.

Era già uscito il suo Il franco cacciatore e sia Mario Luzi che Giovanni Testori mi avevano parlato bene di lui. Quel libro fu per me e per molti altri della mia generazione una fucilata e una delle più forti conferme che la poesia italiana era grande, viva e sopravvissuta ai molti tentativi di chiuderla nei laboratori degli universitari e delle avanguardie nate invecchiate. E, ciò che più conta, una conferma che lasciarsi occupare dalla poesia non sarebbe stata un’incongruenza rispetto ai drammi e alle necessità dell’epoca.

Caproni è un poeta destinato a crescere nel tempo. È invitante per i critici, specie quelli con velleità filosofiche. Ma non credo che la sua vera sorte sia d’essere un poeta philosophe. È sbagliato leggere l’ultimo Caproni come se non avesse dentro ancora la gamma delle dolcezze e malinconie giovanili e della maturità. Bisogna dire ai critici che Caproni non va mai astratto da Caproni. Non si capirebbero, nel paesaggio irto e desolato delle poesie dell’ultima fase, quelle presenze di musica, di improvvisa vasta mestizia, di guizzante ironia o addirittura di felicità, se non si avvertisse che nelle sue ultime opere vi è una ricapitolazione delle prime e non una separazione. Da vecchio, è vero, ha avuto il coraggio che è mancato a molti intellettuali del suo e nostro tempo: di gettare lo sguardo al fondo della questione umana e lì tenerlo inchiodato in modo che da quella fissità si producessero i movimenti della lingua e della luce. I movimenti dell’arte non vengono da spiriti ginnici, ma da bastoni come lui, piantati in una terra dura. Ma da giovane, a rileggerlo, si vede che ha avuto il coraggio di non giocare con la poesia e di offrire uno sguardo aperto all’evento del mondo.

Ha fatto bene Giovanni Raboni a far notare che tra Caproni e Testori ci fu probabilmente non solo una stima reciproca, ma qualcosa come uno scambio, vista l’altezza cronologica della composizione di alcune opere dei due. L’amicizia che lo legò a Luzi e questa vicinanza con Testori saranno elementi su cui la critica dovrà riflettere per non restituirci, da qui a qualche anno, un Caproni raggelato e distante, ad usum scholarum. Per i poeti della mia generazione Caproni è stato uno dei segni della possibile lealtà della poesia nei confronti dell’esistenza. Uno di quelli che ha tolto il “ma” che troppi discorsi e troppi professori solevano mettere, per dare una definizione che suonasse contemporanea, dopo il termine “poeta”. Poeta senza “ma”. Ha dato la possibilità di non presumere che alla poesia occorresse null’altro se non quel torbido mestiere di ritmo e lingua, di dantesco legame musaico che armonizza parole e le fa diventare anche quell’ “altro” da cui provengono. È quasi commovente leggere in alcuni suoi saggi l’asciutta soddisfazione di appartenere a una generazione di poeti (dei Luzi, appunto, dei Sereni, dei Bertolucci…) che ha dimostrato di non essere solo una sorta di passaggio, di generazione di mezzo tra la grandezza di alcuni fratelli maggiori e quel che veniva dopo di loro. Il che, sia detto per inciso, ha permesso alla poesia italiana attuale di tenere un livello medio generalmente buono, a differenza del romanzo.

Io non so se la mia generazione potrà conoscere la stessa soddisfazione. Certo la presenza di questi “nonni” continua a essere vivificante più di quella di presunti fratelli maggiori. Luzi mi disse che anche a lui e ad altri della sua covata capitò di guardare più a Campana e a Rebora che a Montale e a Ungaretti. Certo la presenza di eventi accomunanti come la guerra può aver favorito l’indurirsi di una coscienza non secondaria del valore della poesia e della sua inerenza al mondo. E la guerra è un evento, da un certo punto di vista, che mette “facilmente” insieme una generazione. Ma anche a noi capita di vivere in mezzo a guerre solo apparentemente meno cruente, ma non meno distruttive. Quello che forse manca è il desiderio del giudizio. Il giudizio è ciò su cui ci si divide o ci si lega, ma che comunque mette, di fatto, insieme. C’è molto giudicume letterario, poco giudizio storico, poche sonde gettate a dare giudizi sulla storia profonda della nostra gente e del nostro luogo. Le opposizioni letterarie non mancano, certo. Non mancano le strategie di differenziazione. Ma sono, appunto, differenziazioni di carriera. Qualcosa si chiarirà nel tempo, forse. Ora lavorare, legare, spezzare.

In realtà non ho mai veramente conosciuto Caproni, ci incontrammo di sfuggita un paio di volte. E il suo temperamento e, forse, la sua aspra riflessione non davano al suo gesto la disponibilità di altri. A Ravenna, per esempio, lo vidi dopo una sua Lectura Dantis. A parole sembrava solo preoccupato del compenso che gli avevano promesso. Ma in immagine era lì, quasi uno spettro, tra molti che come me si avvicinavano a salutarlo. Circa dieci anni più tardi, un mio amico narratore di gran talento, Aurelio Picca, ha fissato l’immagine della tomba di Dante in quell’angolo di Ravenna con un paragone fulminante. «È un bancomat», ha scritto. E mi è tornato in mente Caproni, che lì attendeva i suoi soldi, sperso in qualche pensiero di risarcimento o di grazia...

Giorgio Caproni è unanimemente considerato uno dei maggiori poeti del Novecento italiano. Nato nel 1912 a Livorno e morto a Roma nel 1990, è stato insieme a Luzi e a Bertolucci la voce più originale della poesia italiana che ha iniziato a esprimersi negli anni '30 fino a dare le sue più recenti e convincenti prove negli ultimi anni del secolo. Fin dai suoi primi libretti, Come un’allegoria (1936) e Ballo a Fontanigorda (1938), la voce di Caproni ha unito la tensione musaica e l’essenzialità della visione e del pensiero.

I luoghi (Livorno, Genova, poi Roma), le donne, la guerra, sono per Caproni i momenti, le occasioni di una continua apertura della sensibilità e della perlustrazione. Non a caso, dopo la fase centrale, matura, della sua opera (Il seme del piangere, 1959; Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, 1965), egli arriva, fin da Il muro della terra (1975), a un’esperienza della poesia segnata dalla metafora della ricerca, della caccia. I suoi testi, che si muovono tra musicalità apparentemente facili, ricalchi stilnovisti, uso di rime segnate e forti, consegnano al lettore una mappa dell’umana esperienza, sempre indagata alla luce del senso del destino: grandiose, ad esempio, quelle dedicate alla madre, colta come ragazza, quasi fidanzata del poeta, così come di elevata tensione formale e gnoseologica tutte le raccolte finali, Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevenhüller (1986) e, postuma, Res amissa. La qualità essenziale della poesia caproniana, in ogni sua fase, è la libertà formale, una libertà nutrita da un grande senso delle forme tradizionali della lirica italiana e dalla coscienza che ogni forma poetica è l’impronta di una tensione conoscitiva. Non solo a livello dei titoli delle opere ci sono frequenti ricorsi a Dante, al suo viaggio. Specialmente nell’ultima parte della sua opera, con una radicalità non facilmente reperibile in altri poeti, troppo spesso rimasti al di qua di una immagine rassicurante e consolatoria della poesia, Caproni ha accordato grazie al suo finissimo orecchio (era anche violinista) i movimenti della sua voce a quelli di uno spirito inquieto, cosciente di trovarsi in una condizione paradossale. Quella, appunto, di uno che abbia la vita segnata da una res amissa, un bene perduto, o forse solo nascosto, da cacciare come preda. Che tale oggetto della ricerca sia, di volta in volta o anche allo stesso tempo, l’io e Dio è la prova della lucida immanenza di Caproni entro le vere grandi questioni del nostro tempo. La sua professione di ateismo, dura e quasi scontrosa, è la chiave paradossale per intendere senza fraintendimenti la chiave religiosa della sua poesia. E per ascoltarla, al pari delle altre grandi voci del nostro patrimonio di poesia (Ungaretti, Montale, Luzi), come suggerimento inesausto di verità del vivere.

* * *

L’ascensore

Quando andrò in paradiso
non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all’alba - d’acqua piovana.

Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e… forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.
Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro - saremo soli
e fidanzati, come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n’andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo «Giorgio, oh mio
[Giorgio caro: tu hai una famiglia.»

E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
blanca da una canzone
per radio, sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
«È festa», dire a Rina
e al maschio, e alla mia
[bambina.

E il cuore lo avrò di cenere
udendo quella campana,
udendo sapor di tegole,
l’inverno dell’acqua piovana.

Ma no! se mi sarò deciso
un giorno, pel paradiso
io prenderò l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti a pianterreno
mite per dirmi: «Ciao,
scrivimi qualche volta,»
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.

E allora sarò commosso
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare
sui tegoli le mie più amare
lacrime, e dirò «Chi suona,
chi suona questa campana
d’acqua che lava altr’acqua
piovana e non mi perdona?»

E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: «Ciao, scrivi,»
ancora scuotendo il freno
in poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:

proprio come il giorno stesso
che ti lasciai per la guerra.

* * *

Ultima preghiera


Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.

Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.

Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.

Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.

Ricòrdati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà
[apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al
[Cisterone.

Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.

Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accòstati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.

Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mórmorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.

* * *

All’osteria

Guardava il bicchiere. Fisso.
Quasi da ridurlo in schegge.
Sapeva che il bicchiere dura
più di chi in mano lo regge?