Cacciari e il cardinale Scola all'incontro di Varese.

Tra fede e ragione, lo spazio per un cambiamento

Per anni hanno dialogato a Venezia. Massimo Cacciari, ex sindaco, e il cardinale Angelo Scola, ex patriarca, si sono ritrovati a parlare allo stesso tavolo davanti a 1.200 persone. Ecco cosa è accaduto la sera del 6 febbraio
Roberto Copello

Il «mio patriarca». Massimo Cacciari, se deve riferirsi all’Arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, lo chiama proprio così, in termini affettuosi, quasi inattesi in un filosofo che pare spesso indossare la maschera di una burbera ascesi. Toni persino nostalgici, quelli di Cacciari, nei quali si intravvede il rimpianto per quella stagione irripetibile vissuta a Venezia, quando lui era sindaco e Scola, appunto, patriarca. Troppo vivido dev’essere ancora il ricordo di quegli anni in cui un filosofo e un teologo, entrambi personalità di grande levatura, si trovavano a guidare la città lagunare nel segno di una rara corrispondenza intellettuale e morale. E se è vero che lago e laguna inducono alla malinconia, non è strano allora se in una fredda sera di febbraio questa strana coppia si ritrovi proprio sulle rive di un lago lombardo, quello di Varese, per proseguire nel segno di una profonda amicizia il dialogo iniziato in laguna. Il filosofo non è più sindaco, il teologo non è più patriarca, ma le questioni che li appassionano sono sempre le stesse. A partire dalla necessità di quel dialogo tra fede e ragione che è a tema della serata varesina (“Le ragioni della fede”), tre giri di domande poste dal moderatore Enrico Castelli, tre round dove l'obiettivo non appare mai mettere al tappeto l'avversario.

In sala il pubblico ascolta con attenzione. Dove mai al mondo accade che 1.200 persone (altre 800 non sono riuscite a entrare...), tanta gente comune, restino concentrate sui passaggi di un dibattito filosofico e teologico di altissimo livello, spesso di non facile comprensione? Eppure sono lì, affascinate da due pensatori che, fra citazioni di Leibniz e Tommaso, Cartesio e Kierkegaard, Nietzsche e Ratzinger, argomentano sull'essenza di un bicchiere, sulla sua concretezza, unicità e irripetibilità.

Filosofia e teologia, attacca subito Cacciari, non vanno viste in contrapposizione. E la verità, in quanto verità, dev’essere indagata, sennò diventa superstizione, che significa esattamente stare sopra, sedati, tranquilli («Kierkegaard dice che la teologia sta appesa alla croce: non sulla croce, ma appesa alla»). E ancora: Leibniz aveva ragione a dire che cominciamo da filosofi ma finiamo da teologi, e a chiedersi «perché l’ente invece del niente?», domanda con cui la filosofia diventa teologia. Ma oggi il colloquio fra filosofia e teologia è minacciato dal dogmatismo teologico (la teologia senza il confronto con la ragione diventa solo apologetica) e da un dogmatismo dell’intelletto, che riduce tutto a fisica. Per Cacciari, nulla è comprensibile di questi due millenni se non ci si interroga sulla rivelazione di Gesù Cristo, e «solo l’idiota, ma non nel senso di Dostoevskij, può dire che ciò non gli interessa, che non è questione della ragione o della filosofia». Persino Nietzsche si interrogava su questo: Cacciari è scandalizzato che certa teologia non abbia notato come il filosofo tedesco avesse voluto per tutta la vita, “disperatamente”, essere un figliol prodigo.

Scola si dice colpito da come Cacciari abbia “presentato ragione e fede come due fiori, distinti ma intrecciati, che sbocciano sul terreno fertile della conoscenza e non vanno opposti fra loro”. Spiega la dinamica conoscitiva e di fede che il sorriso della madre innesca in un bimbo di due anni, il quale “conosce tutto af-fi-dan-do-si” (il cardinale scandisce bene le sillabe...), protendendosi con la sua intelligenza e la sua volontà verso la madre e vedendo, attraverso di lei, che è bello esistere, che la realtà è positiva: “C'è sempre un elemento di ragione e uno di fede in questo suo trasporto. Questa è l’esperienza naturale della fede. Che si accompagna alla capacità di intus legere, di leggere il segno”. Scola aggiunge che sono sempre stati guai quando la fede e la ragione non si sono cercate. E spiega che soltanto l'irrigidimento teologico e filosofico seguito all’illuminismo fa sì che ci appaia strano che lo scienziato-filosofo Cartesio abbia scritto stupende pagine sull'Eucarestia (qualcuno in platea lo sapeva?). Di qui l'invito a seguire Benedetto XVI e ad allargare la ragione, a 360 gradi, anche di fronte alla biotecnologia e alle neuroscienze: “Le domande ultime che un tempo erano appannaggio dei filosofi oggi vengono fuori dai laboratori”.

Cacciari e Scola, insomma, sembrano spesso parlare la stessa lingua. Anche se sul finire il filosofo ci tiene a marcare le distanze, paragonandosi a quei pagani che, secondo san Paolo, non possono che essere disperati: «La differenza fra la bella testimonianza di fede ragionata data dal patriarca e il sottoscritto non sta nel fatto se Dio esiste o no, ma sta nell'avere fede nell’uomo, nei figli che quell’Uomo ha chiamato. Dove non riesco a seguire il patriarca è proprio lì. Però quando mi incontro con uomini di fede di una levatura come quella del cardinale Scola mi meraviglia come si possa avere fede nell’uomo. È una meraviglia che continua a interrogarmi, che continua a farmi problema». Scola ribatte sottolineando che la fede (e la conversione) può nascere solo di fronte a un testimone, anche se, precisa, la testimonianza non coincide solo con il buon esempio («questo fa parte dell’ovvio») ma è conoscenza della realtà e comunicazione della verità: va dunque intesa in termini radicali, «non come il buon esempietto». Sino a pagare di persona: «È un caso se c'è un ritorno massiccio del martirio? Se si contano 100mila martiri cristiani all'anno?»
Alla fine, sono state 11 le volte in cui Cacciari ha chiamato “patriarca” Scola. La dodicesima e ultima, però, è diventato “il cardinale”. Nella vita c'è sempre posto per il cambiamento...