Tat’jana Kasatkina.

La volpe, la coda e Colui che ci fa muovere

Trento, Napoli, Pesaro... L'intellettuale russa ha girato il Belpaese, in un tour fatto di incontri e conferenze. Ma non solo. «Anche di una strana bellezza che accade», come racconta chi l'ha accompagnata
Elena Mazzola

Dal primo incontro con Tat’jana Kasatkina a oggi - un oggi in cui la vita è vissuta sempre più insieme - c’è un denominatore comune? Sì, una stranezza, la percezione di qualcosa di diverso, di una bellezza strana che accade, ti ferisce, ti afferra in profondità. E ti fa muovere.
Sono tornata a Mosca dopo aver accompagnato Tat’jana Kasatkina in un grande tour italiano, un evento organizzato dall’Associazione Italiana Centri Culturali che ci ha portate letteralmente a girare mezza Italia: da Pesaro a Napoli per poi salire al nord, a Treviglio, San Donà di Piave, Modena, Abbiategrasso, Trento e Torino. Ci siamo mosse, dunque, evidentemente.

Ma perché? Perché un chirurgo di Eraclea coinvolge gli amici di San Donà di Piave a invitare la gente a un evento cittadino con a tema cultura, conoscenza e bellezza? Perché una contabile pesarese si trova a occuparsi di letteratura? Perché tanta gente ha guardato il programma del “tour” e si è fatta magari anche quattro ore di strada per raggiungere la tappa più vicina? O uno studente di ingegneria decide di farci da autista per cinque giorni? O, ancora, una ragazza kazaka trapiantata a Treviglio ci apre le porte di casa sua, ci invita a cena e vuole raccontarci la sua vita testimoniandoci una gioia inequivocabile? E tutti gli altri amici che ci hanno voluti invitare a casa loro, fare entrare nelle loro case, nelle loro famiglie, nelle loro comunità, nelle loro opere, nelle loro città? Perché, insomma, così tanta gente ha desiderato rincontrare Tat’jana, ascoltarla, dialogare con lei?
E perché mai, inoltre, lei ha voluto tutto questo? Perché ha accettato con gioia di sottoporsi a ritmi di viaggio serratissimi e quanto meno inusuali?

È da un po’ che non riesco a pensare a quello che sta accadendo nell’amicizia con Tat’jana e con altri amici ortodossi, come il filosofo ucraino Aleksandr Filonenko o il poeta bielorusso D’mitrij Strocev, senza che mi torni prepotentemente in mente quanto don Giussani disse al raduno dell’associazione Nueva Tierra ad Avila, nel 1985: «Oggi ciò di cui c'è maggiormente bisogno nella vita della Chiesa è proprio questo: che sorga un movimento conforme alla storia di ciascuno; un grande movimento di amici impegnati in base alle circostanze della loro vita. Un grande movimento nel quale la fede torni a essere quello che è stata sin dai primi secoli: la scoperta di un'umanità più umana». È - letteralmente (e profeticamente) - quello che sto vedendo accadere davanti ai miei occhi: uomini - amici - che si impegnano ognuno con le circostanze della propria vita, che “si muovono” e nel loro muoversi testimoniano la loro fede rendendo così evidentemente presente un’umanità più umana. E questo è anche il cuore - il motore pulsante - di quello che è accaduto in questo nuovo giro di incontri italiani.

Tat’jana Kasatkina, lo sappiamo, è impegnata nello studio di Dostoevskij, della letteratura, dell’arte e, forte della sua esperienza, aveva da poco sfidato chi di noi si occupa di cultura a contribuire a ridare all’arte il suo vero senso, quello originale di «essere intermediario tra l’uomo e Dio». E Dostoevskij è il grande testimone di questa possibilità che non è andata perduta ma che, anzi, per la Russia è stata una delle principali ancore di salvezza dall’attacco feroce dall’ateismo comunista, perché: «immaginatevi che in Italia vietino di leggere la Bibbia ma permettano di leggere Dante. I comunisti non si sono accorti di quello che facevano permettendo di leggere Dostoevskij e Puškin. È stato il loro più grande errore».

La forza dell’arte, dunque. È un pensiero che affascina e apre tante domande: «Ma perché - le chiedono già a Pesaro e poi a Napoli e poi ancora e ancora - Dostoevskij è così inquietante? Uno si mette a leggere per rilassarsi, ma i suoi romanzi a volte sono così violenti che viene addirittura voglia di chiuderli!». Tante formulazioni, la stessa domanda: Dostoevskij ci turba, non ci fa stare tranquilli, ci coinvolge e ci sconvolge, è come se ci volesse trascinare nella profondità delle scene atroci che descrive, le rende reali, troppo vicine a noi…: «Ma deve per forza farci vedere tutto questo abisso di male che ci impedisce di “rilassarci”?»

Ogni volta che si chiarisce che il tema è questo, Tat’jana si concentra particolarmente, come a voler riuscire a dire bene, a far percepire il miracolo che le pagine del suo amato scrittore ci regalano trascinandoci fuori dallo «straniamento estetico» provocato dal tempo che ci allontana dalla contemporaneità dell’avvenimento di Cristo: «Noi ci siamo addirittura abituati a dire frasi come “che bel crocifisso”, perché non ci accorgiamo più di quello che ci dice realmente l’immagine che abbiamo davanti agli occhi. Per noi è qualcosa che è successo tanto tempo fa, una storia di cui abbiamo sentito parlare tante volte, e che quindi non ci colpisce più con la sua forza reale. Sappiamo che è vero, ma non ci tocca più con la forza con cui ci colpiscono gli avvenimenti che accadono nel presente. Così arriviamo a percepirla quasi in chiave mitologica. Allora Dostoevskij cosa fa? Include l’avvenimento della crocifissione di Cristo in un avvenimento reale del presente, dell’attualità. E all’inizio noi non riconosciamo nemmeno che la scena che ci troviamo davanti è un nuovo realizzarsi della crocifissione di Cristo, perché se ce ne accorgessimo subito, in noi automaticamente scatterebbe quel meccanismo che blocca la nostra coscienza sovrapponendo all’avvenimento reale la patina creata dal tempo che ce lo fa sembrare remoto». È questo quello che riescono a fare le opere artistiche di Dostoevskij ed è per questo che ci turbano così: «Dostoevskij interrompe il flusso del nostro quieto vivere incosciente; ci trascina fino a farci vedere la realtà, ci porta a recuperare la coscienza di quello in cui ci imbattiamo in ogni istante dell’esistenza […]: è Cristo che soffre e muore in ogni persona intorno a noi e, dall’altra parte, le persone che soffrono e muoiono intorno a noi non sono “qualcuno” ma sono Cristo. Dostoevskij ci obbliga a vedere la profondità della nostra stessa vita e sarete d’accordo che non è affatto una cosa «rilassante», tanto che a volte ci viene perfino voglia di chiudere il libro». O di riaprirlo, come ci racconta poi a cena un amico sacerdote: «Io mi occupo degli ammalati, li visito tutti i giorni in ospedale da anni. Le parole che di Tat’jana mi hanno colpito: domani non potrò andare a lavorare allo stesso modo, avrò in mente che quei malati sono Cristo».

Perché anche di questo si è trattato in questi giorni: di una scossa che ci ha risvegliati in tanti, che ci ha rimessi in moto facendoci riaccorgere di chi siamo e di che responsabilità abbiamo per il mondo, davanti a tutti gli uomini del mondo.
Di fatto il nostro tempo è stato tutto intessuto di incontri - pubblici e personali, programmati e inaspettati, come quelli con amici che non vedi per anni e ti trovi davanti nei luoghi più impensati o quelli con grandi intellettuali con cui apparentemente ti sembrerebbe di aver poco a che fare - esperienze lontane, giudizi radicalmente opposti - con cui ci si appassiona a parlare del mistero dell’uomo, della vita, di Cristo e della sua Compagnia con una familiarità inimmaginabile. Da amici. Come accorgendoci improvvisamente - gli uni e gli altri - che siamo fratelli, solo che ce l’eravamo dimenticati.

E su questo punto le parole di Tat’jana, come quelle di Dostoevskij, non lasciano tregua. Smuovono qualcosa di originale. «L’umanità - ha detto parlando agli amici di Abbiategrasso - non è un insieme di esseri separati tra loro ma è un corpo solo. E ce lo ripetono costantemente già da duemila anni… Ma pare che non riusciamo comunque a ricordarcelo! […] È come se ci dimenticassimo che non possiamo salvarci da soli e che il nostro compito è quello di ristabilire l’integrità dell’universo. […] C’è una bellissima fiaba che parla proprio di questo, della vanità del nostro tentativo di salvarci senza qualcuna delle nostre parti: “Una volpe fu inseguita da dei cani. Scappò correndo con tutte le sue forze finché non riuscì a trovar rifugio in una tana. Una volta al sicuro si mise a ispezionare le membra del suo corpo e le interrogò: ‘Zampe, zampe, cosa facevate mentre io cercavo di sfuggire dai cani?’. ‘Noi correvamo con tutte le nostre forze per cercare di portarti lontano dai cani’. ‘Benissimo, brave zampe! Occhi, occhi e voi cosa avete fatto?’. ‘Osservavamo, cercavamo i sentieri più brevi per farti allontanare dai cani’. ‘Bravissimi! Naso, naso, tu cosa facevi?’. ‘Io annusavo per trovare un sentiero che rendesse difficile lasciar tracce così che ai cani fosse difficile fiutarti’. Insomma, bravo il naso e brave anche le orecchie. Tocca alla coda: ‘Coda, coda, e tu cosa hai fatto?’. ‘Io ho cercato di impigliarmi in tutti i rami e gli arbusti che trovavo per strada, per impedirti di correre troppo veloce così che i cani potessero raggiungerti’. A queste parole la volpe si arrabbiò terribilmente, cacciò la coda fuori dalla tana e disse ai cani: ‘Mangiatevela!’. E, come potete immaginare, dietro alla coda i cani trascinarono fuori la volpe tutta intera e la divorarono”. Noi spesso ci accorgiamo - conclude Tat’jana - che parte del mondo lotta contro la nostra salvezza, che c’è una parte cattiva della creazione, ma non ci rendiamo conto fino in fondo del fatto che siamo radicalmente uniti anche a quella parte. Come Dostoevskij mostra splendidamente nei Fratelli Karamazov: chi è già giunto a Cristo esiste e vive per quelli che non l’hanno ancora raggiunto, non contro di loro ma a favore loro e per loro, per essere per loro la strada che li aiuti a ricongiungersi. Per questo il compito del cristiano è sempre quello di combattere non contro ma per. A me sembra addirittura che questo sia uno dei sintomi da cui si riconoscono i veri cristiani».

Che poi - verrebbe da dire - si incontrano, perché il denominatore comune è uno solo, Cristo, Cristo vivo e presente in una realtà umana e perché, in fondo, diceva sempre don Giussani ad Avila, «noi siamo quello che siete voi: la nostra storia e la vostra storia hanno le stesse radici, gli stessi principi e lo stesso scopo».