Dino Buzzati.

Naturalmente cristiano, naturalmente umano

Tempo, attesa e mistero. Queste le parole chiave che emergono dai testi dell'autore bellunese ricordato in un incontro al Caffè Fondagno di Roma. Ne hanno parlato il poeta Bernardo Pacini e il giornalista Piero Vietti
Anna Minghetti

«Se nell’aldilà c’è qualcosa, nessuno più di Dino Buzzati se l’è meritato, perché l’ha interrogato tutti i giorni della sua vita». Con queste parole Indro Montanelli salutava il collega e amico, il giorno dopo la sua scomparsa. Parole che risuonano durante l’incontro che il Centro Culturale di Roma ha voluto dedicare all’autore, lo sorso 23 giugno presso il Caffè Fandango, nel cuore della capitale a pochi passi da Montecitorio. Parole che appaiono limpidamente vere nell’ambito di un momento in cui è emerso - prima ancora che la figura di un uomo che in una sola vita è riuscito ad essere giornalista, scrittore, poeta, pittore e molto altro - il suo rapporto col mistero e la sua instancabile ricerca di esso. Perché non si può parlare non superficialmente di Buzzati senza prendere in considerazione questo aspetto, l’aspetto che ha accompagnato la sua intera esistenza. Ad introdurre il dialogo con l’autore, Piero Vietti, accomunato a Buzzati dalla professione giornalistica, e Bernardo Pacini, che invece ne condivide la passione poetica.

Entrambi, però, hanno preferito cedere la parola allo scrittore, lasciando che i temi a lui cari emergessero dai suoi stessi testi. Come quello del tempo perduto, presente già nel «Deserto dei Tartari», che un giovanissimo Buzzati scrive poco dopo essere approdato al Corriere della Sera: il tempo passa inesorabile e tutto quello che è andato non ritorna più. O come un’altra grande costante buzzatiana, che ciascuno può sperimentare nella propria vita, l’attesa. Perché tutti vivono come se da un momento all’altro dovesse arrivare qualcuno. Attesa che però non rimane semplicemente tale, «perché Buzzati non è Godot», non aspetta in eterno chi non giungerà mai. Qualcuno alla fine arriva ed ha le sembianze del mistero, che non è concetto vacuo e indefinito, ma è uno che è lì per te perché vuol farti felice. Tuttavia, l’uomo sembra sempre, per qualche assurda e incalcolabile coincidenza, mancare l’appuntamento col destino. Vietti notava, infatti, che in ogni racconto di Buzzati pare che il personaggio principale esca costantemente sconfitto. Però, girando pagina, eccolo tornare nuovamente all’attacco, magari con un altro nome. Buzzati è ancora lì che ricomincia la sua “interrogazione” al mistero.

Lo stesso mistero torna anche nell’opera poetica dell’autore, definita da Pacini come la «zona d’ombra della produzione buzzatiana», per una sorta di rispetto e timore che egli nutre nei suoi confronti. Rispetto, perché si rende conto che c’è differenza tra chi prova a fare poesia - come lui riteneva di sé - e chi è stato toccato da un dono, chi è stato «visitato dagli Dei», come dice in un suo racconto parlando di un giovane che aveva avuto in sorte l’abilità poetica. Timore, perché capisce che non si può controllare la poesia come la prosa. Essa è capace di «trapanare il cuore della gente» come la narrativa non è in grado di fare, ma chiede anche di dare un nome alle cose, di uscire allo scoperto. Non ci si può nascondere nella poesia come ci si cela nella trama di un racconto. «A Buzzati è mancato il coraggio della parola, di dare un nome alle cose», ha chiosato Pacini.

Ma la poesia di Buzzati porta in sé quella bellissima espressione in cui si dichiara, forse più esplicitamente che nella prosa, il dramma interiore di un uomo professatosi ateo per tutta la vita: «Dio che non esisti ti prego». «Ma se non esiste perché lo preghi?», gli domanda un ipotetico interlocutore. «Non esiste fintantoché io non ci credo[..] ma se io lo chiamo[…] Per la forza terribile dell'anima mia, forse vile, trascurabile in sé, però anima nella piena portata del termine, se lo chiamo verrà.» Non sembrerebbe la descrizione di qualcuno a cui non si crede, quanto piuttosto quella di un Dio che è lì a pochi passi, a cui basta tendere la mano. Un Dio per il quale è sufficiente essere chiamato per farsi presente, senza bisogno di alcun merito da parte di chi lo invoca. Un Dio che ricorda il Padre paziente di cui parla papa Francesco, che non si stanca di perdonare, mentre siamo noi che non dobbiamo stancarci di chiedergli perdono, di chiamarlo. Verrebbe, quindi, da unirsi a Montale nella definizione di Buzzati come «naturalmente cristiano». O forse si potrebbe semplicemente dire «naturalmente umano», «nella piena portata del termine».