Julián Carrón.

Se educare è risvegliare un cuore al suo destino

La presentazione del libro di Antonio Polito "Contro i papà" (Rizzoli) al Centro Culturale di Milano. Con l'autore e Ferruccio De Bortoli c'era anche don Julián Carrón. Ecco la cronaca dell'incontro
Stefano Filippi

La «società della pantofola», la chiama Antonio Polito. Tutto facile, tutto comodo, meglio vivere di rendita che investire, proteggere anziché rischiare. È la società dell’individualismo e dell’irresponsabilità che permea l’aria che respiriamo. Aria pesante. Polito, editorialista del Corriere della Sera, vi ha dedicato un libro, Contro i papà, partendo dalla propria esperienza e da un dialogo con i lettori del suo giornale. Non contro il padre, ma i papà, anzi i «papino», i «bamboccioni». In realtà è un j’accuse verso l’intero impianto sociale moderno e l’illusione ipocrita di avere tutto subito e gratis, senza fatica, soprattutto senza un ideale all’altezza dell’attesa umana. Alla presentazione del volume, organizzata dal Centro Culturale di Milano e condotta dalla presidente dell’Associazione italiana centri culturali Letizia Bardazzi, Polito ha invitato un altro giornalista, il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli, e il presidente della Fraternità di Cl, don Julián Carrón. E il grido di dolore della generazione dei papà infingardi, dei «goffi sindacalisti dei loro figli», è diventato una strada di cambiamento.

Quella di Polito non è una tirata moralistica ma un’inchiesta. Cita dati e statistiche della campana di vetro in cui i giovani vengono fatti vivere: più «bamboccioni» (cioè ragazzi a rimorchio delle famiglie) nelle case ricche che in quelle povere; le università a «chilometri zero» che non producono sapere di qualità e paradossalmente gravano sulle tasche dei meno abbienti; l’errore di concentrarsi sui disoccupati dimenticando gli «inoccupati», cioè i ragazzi che non hanno lavoro, non lo cercano e non studiano per ottenerlo. «È un problema culturale non economico», denuncia Polito. «Se vogliamo affrontare questo problema dobbiamo rimettere l’accento su parola caduta in disuso che voi di Cl qualche anno fa avete reso di nuovo attuale: educazione».
De Bortoli, che non dissimula i «sensi di colpa», paragona la sua gioventù con quella di oggi. Non è un lamento sui bei tempi andati. «L’errore è non chiamare i ragazzi alla responsabilità, ma schiacciarli in una sorta di limbo».

C’è meno dialogo, meno confronto e anche meno scontro, che invece nel libro di Polito è indicato come l’essenza di un padre. «Siamo prigionieri del nostro individualismo, ci siamo preoccupati molto di noi stessi. L’ipertrofia dell’individuo e il benessere hanno portato al degrado progressivo delle famiglie e delle istituzioni».

La sfida dei giornalisti viene raccolta fino in fondo da don Carrón. «Tutto ci dice che l’educazione è il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e dei nostri ragazzi. Allora perché abbiamo totalmente abdicato a questa funzione?». Le ragioni sono due. «Per un malefico paternalismo i genitori hanno voluto risparmiare ai figli la fatica implicata nel vivere, ma così hanno spianato la strada verso il nulla. Invece di lanciarli verso una meta ambiziosa, corrispondente al loro cuore, hanno preferito evitargli la fatica della salita». Le conseguenze sono drammatiche, perché «i giovani avvertono la sfiducia». Il malinteso senso di protezione «è un giudizio negativo sulle loro capacità di crescere ed essere se stessi, ed essi colgono questo giudizio anche se resta implicito».

Carrón cita un’intervista di don Giussani del 1992, oltre vent’anni fa: «Mi spaventa un’Italia senza un ideale adeguato, un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Questo non può durare». La passività dei giovani, il torpore che li avvolge ha radici «nello scetticismo degli adulti che non propongono qualcosa per cui valga la pena muoversi. È difficile oggi trovare adulti che non siano scettici. Come descrive Leopardi, la natura dell’uomo è non poter essere soddisfatto di nulla: invece vengono offerte risposte facilone che non risvegliano tutta la loro capacità».

C’è una seconda fonte di questa impostazione educativa: il pensiero del Novecento che ha tolto all’uomo la responsabilità delle proprie azioni. «L’io è in balia di altro. Per Freud erano forze psicologiche più grandi di lui, per il marxismo le colpe sociali, per il darwinismo gli antecedenti biologici. Il risultato è che l’io non c’è più, un sasso travolto dalla corrente».

Ma se l’uomo è irriducibile ai suoi antecedenti biologici, antropologici e sociali, c’è una speranza anche per le generazioni di oggi. Non sono prigioniere del mondo che gli è stato creato attorno. «Basta un minimo di rapporto con i ragazzi per scoprire che il loro io c’è. Capiscono benissimo. Non devono studiare legge per capire che cosa è giusto. Il criterio per giudicare è nella loro natura di uomini». E allora si riparte proprio da questo cuore, dal «punto infiammato» di un io sepolto dal torpore, dalla noia, dalla mancanza di adulti che proponga loro una sfida all’altezza delle loro attese.

Chi dunque è in grado di risvegliare l’io dei giovani e degli adulti? «È la sfida della nostra generazione, per qualsiasi ambito», dice Carrón. «Non basta una lezione o un richiamo etico, occorre un adulto che con la sua vita faccia interessare l’altro uomo alla sua vita e al suo destino. Solo un testimone può risvegliare le esigenze nascoste dell’io, sfidare la ragione, il cuore, la libertà. Una proposta vivente che suscita il personale impegno con se stessi, senza evitare la fatica personale della verifica. L’educazione non è convincere, plagiare, ma il rapporto tra due libertà. Quando sono sfidati i ragazzi sono entusiasti. Il problema è che nessuno li sfida».