Una scena del film.

D'Avenia: «I miei personaggi? Li ho visti vivere di nuovo»

Esce la versione per il grande schermo di "Bianca come il latte, rossa come il sangue". Lo scrittore torna a parlarne con gli studenti della Cattolica di Milano. La sfida del film? Portare nelle sale una domanda: «Che cos'è che salva le cose?»
Linda Stroppa

Uscirà il 4 aprile Bianca come il latte, rossa come il sangue il film di Giacomo Campiotti (prodotto da Lux Vide e Rai cinema) che prende il titolo dall’omonimo libro di Alessandro D’Avenia, professore di Lettere in un liceo classico di Milano e che sempre con Mondadori ha pubblicato Cose che nessuno sa. All’origine della pellicola, come del romanzo, c’è la storia di Leo, sedicenne che si innamora della sua compagna di scuola, Beatrice. Lei è bella, è di origine francese e ha i capelli rossi. È ammalata di leucemia. L’epilogo è chiaro fin da subito. «Anche se il trailer sembra far pensare che tutto andrà bene, non è così», dice lo scrittore davanti a una platea di giovani che ieri pomeriggio, all'Università Cattolica di Milano, lo hanno ascoltato per due ore: «Beatrice muore. Non c’è verso di risparmiarle la vita».

A salvarsi, invece, è Leo. Aiutato da personaggi che lo aiutano a crescere, scopre se stesso e inizia a rispondere alle poche, grandi domande che contano nella vita. «Le stesse che ho io», spiega D’Avenia che ha collaborato alle riprese del film, stendendo la sceneggiatura insieme a Fabio Bonifaci: «Scrivere per il cinema è stato come rimpastare i personaggi che avevo creato, vederli vivere di nuovo. Ed è stata una sofferenza». Il motivo lo spiega con una citazione di Lettera a D. di André Gorz: «Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro». «Il libro è questo. Il racconto di un braccio di ferro lacerante con il dolore e la morte». Vederlo sullo schermo fa effetto.

«Il mondo della tv preferisce l’amore al dolore. Perché? Perché noi siamo dei sognatori. Passiamo il tempo a fare ipotesi narrative sulla vita, ci prepariamo al futuro immaginando storie, in modo da non farci troppo male quando la realtà si svela. C'è un’unica ipotesi che non riusciamo a fare. Ed è quella sulla morte». La sfida è stata portare in una sala cinematografica una domanda: «Che cos’è che salva le cose?».

Quella di Leo (interpretato nel film da Filippo Scicchitano) «è una battaglia vera» - anche se affrontata nel film in modo lieve -, in cui il vuoto della vita è riempito dall’amore per Beatrice (Gaia Weiss). Ad accompagnarlo, c’è l’amicizia adulta del Sognatore (Luca Argentero, nei panni di un professore supplente di Lettere), la compagnia tenera di Silvia (Aurora Ruffino) e quella più scanzonata dei compagni di classe che, come Leo, si trovano immersi nell'adolescenza, «in quel periodo travagliato e affascinante in cui un ragazzo per la prima volta dice: questo sono io».

Una storia che D’Avenia ha già visto e vissuto. Da studente e da professore. «Un giorno mi sono ritrovato in una classe del liceo per una supplenza (occasione d’oro per degli alunni che non aspettano altro che dimostrarti che sei uno “sfigato”). Ho chiesto: sapete perché faccio l’insegnante? Perché mi diverto. Quando insegno sono al mio posto. A quel punto, li ho sfidati, chiedendo loro di raccontare quand’é che in quindici anni si erano sentiti così. Al loro posto nel mondo». Dall’ultimo banco si alza una mano. Un ragazzo, «il più sfrontato di tutti, che fino a quel punto se n’era stato a fare battute», prende la parola e ricorda una compagna di banco portata via da un tumore un anno prima. “Non siamo stati noi ad accompagnare lei, ma lei ad accompagnare noi”».

«La sua faccia era cambiata», continua D’Avenia: «Quel giovane, che fino a un minuto prima sembrava un gallo, perfino un po’ irriverente, improvvisamente aveva il volto compiuto dell’uomo che sarebbe stato. Ho pensato che volevo raccontare questa storia. Quel volto sarebbe diventato il mio protagonista, quello che combatte per primo. Quel volto era, forse, un po’ il mio».
Non si può dire che i ragazzi non abbiano una domanda su Dio. «Ce l’hanno, eccome. Molte delle cose che ci sono sono frutto del suggerimento e della correzione dei miei alunni. Quando ho dato loro il primo manoscritto avevano quindici anni, oggi sono in quinta superiore e verranno con me all’anteprima del film a Roma. Mi commuove guardare il senso di compimento che ne viene fuori. Non a caso, in latino, il supino di adolesco (crescere) è adultum. Una tensione che si realizza pian piano».