William Congdon, "Natività", 1960.

William Congdon. L'artista in cerca della sua origine

In occasione dell'incontro tra il Papa e gli artisti nella Cappella Sistina, proponiamo un inedito del grande pittore americano. Che nel 1964, ripercorrendo la sua vicenda personale, svelava la profondità dell'arte e del suo compito
William Congdon

Discorso tenuto all'Università dello Idaho, ottobre 1964

«In ciascuno di noi, in tutta l’umanità, esiste una naturale, radicale, inestinguibile brama di scoprire di essere unito alla propria radice nell’originale senso delle cose. La base di tutte le attività dell’uomo, ogni sua espressione è essenzialmente in funzione di questa ricerca (...). Ogni uomo è nato in questa tensione religiosa di essere unito alla sua origine (...).
L’arte è espressione di questa brama per la quale l’uomo, forse più profondamente, penetra e rivela questo semplice senso o fondo delle cose, origine dell’essere. Qualunque sia la situazione nella quale l’artista si trova, il vero artista non può che cercare di scoprire il suo destino, la sua propria origine (...).
E l’opera che nasce da tale ricerca religiosa è opera d’arte religiosa. (...) Non per il soggetto o per il fine, ma religiosa nel suo essere. (...) L’arte è espressione sensibile di un autentico atto di vita, atto tanto autentico da generare vita (...).
Nella misura che l’esperienza dell’artista è autentica e libera la sua espressione sensibile pescherà al fondo delle cose e dell’essere (...).
Anche l’artista del nostro tempo nel suo sforzo di autenticità, sia pure forse nella confusione regnante di oggi, fa arte religiosa. Van Gogh è tra gli eventi più clamorosi dell’arte come arte chiaramente religiosa, tanto libero tanto autentico era l’atto di vita che generò le singole opere (...).

IL MONDO
Non sarebbe forse esagerazione dire che la caratteristica dominante della nostra società è la dissociazione: estraneità di una persona dall’altra - la solitudine interiore dell’uomo che dissociato dagli altri è estraneo a se stesso. (...) Perché la vera realtà dell’essere umano, la sola realtà duratura non è nel suo essere isolato, staccato o in contrasto con gli altri, ma nel suo essere in comunione, una comunione con gli altri tutti, ai quali siamo legati attraverso la parola e il gesto e l’esistenza stessa. Ed è questa la nostra vera realtà. Se la dimensione comunitaria è la nostra intrinseca realtà, la comunità è già dentro di noi - almeno come seme che attende un terreno in cui maturare.
La società moderna non si identifica con la comunità. Essa viene oggi intesa come coincidenza di angoscia dove l’essere umano (...) è come disintegrato. Mai l’uomo si è trovato così solo, artificialmente e pericolosamente sostenuto dall'illusione dalla superficialità dalle cose che passano, dai rapporti umani che non durano. E mai l’arte si è rivelata così angosciosamente e nello stesso tempo così autenticamente ricerca dell’uomo, dell’artista, verso la sua origine. (...)
Diviso dalla sua vera realtà, l’artista dipinge con una visione fratturata di verità parziali che semplicemente riflettono e proiettano il suo proprio isolamento; una visione zoppicante, che per giustificarsi si assolutizza e diventa per l’artista fine, tanto da imporsi come verità sul mondo, ma che non è né accettata né rigettata come tale, perché nessuno, neanche l’artista stesso, veramente crede più nella verità (...).

IO NEL MONDO
Qual è lo stato, qual è il mio posto nella dissociazione contemporanea? (...) La vera spiegazione del mio disagio non è piuttosto l’essermi trovato in quella separazione tra fede e cultura che fin dalla Riforma, nella crescente secolarizzazione della vita, ha relegato arte e artisti in un posto marginale della società, società la cui fede principale risiede nelle cose materiali? Fu soltanto durante l’ultima guerra, nel mio servizio d’ambulanza in Italia e in Germania che, nel bisogno da parte dei sofferenti del mio soccorso, per la prima volta - già trentenne - trovai me stesso negli altri, divenni conscio della mia origine di amore negli altri e sperimentai una libertà fino allora sconosciuta e la gioia della realtà (...).
Se è vero che l’esperienza della guerra mi aveva rivelato me stesso nell’amore degli altri e se è vero che strumento del mio itinerario doveva essere la pittura, era inevitabile che nella ritrovata libertà cominciassi nel ’48 a dipingere.
Non più a dipingere però come avevo studiato, a riprodurre gli oggetti in un’arte di illusione, ma direttamente dipingendo l’immagine dell’oggetto che sorgeva dentro di me, come l’emozione stessa che mi spingeva ad esprimerlo - nel suo tempo - non nel mio.
Questo si potrebbe chiamare la mia prima conversione, nel 1948.

Fu in questo periodo che mi sono trovato un giorno a tracciare un disco di luce - sole? luna? - sopra la oscura rete di paura della mia Città Nera. Questo disco di luce mentre non disturbava l’unità dell’opera era tanto, apparentemente se non essenzialmente, staccato dall’immagine, che all’istante riconobbi come un segno di consolazione, di speranza - una chiamata? una promessa? Un “simbolo di salvezza” mi ricordo, lo chiamai. Questo disco di luce (...) si doveva ripetere in innumerevoli forme per dieci peregrinanti anni della mia vita, mi doveva seguire, guidare - era la mia Stella di Betlemme? La prima proposta del mio Disco d’Oro fu un passo decisivo. Ritornare in Italia.

Andai a Venezia. (...) Passavo lunghe ore dentro San Marco e ne uscivo con una nuova e profonda sensazione di pace. Quando le grandi campane suonavano lungo i canali e i tetti di Venezia, volevo correre alla loro festante e solenne chiamata che tanto empiva di vita la piazza che mi pareva ricomporsi di immagini davanti ai miei occhi, come se camminassi in un’immagine prima di - e quasi senza nemmeno - doverla dipingere! (...).

Ma una forza interiore mi spinse un giorno ad Assisi. Nella scoperta, nel Disco d’Oro, che l’immagine pittorica doveva essere il mezzo e non il fine della mia ricerca, e nella mia sostituzione, nella mia pittura, del Disco d’oro con la Basilica di San Marco, poteva sembrarmi inevitabile che un giorno mi sarei trovato ad Assisi. Da Giotto a Cimabue, nella Basilica di San Francesco gravitai verso il crocifisso bizantino che parlò al santo. Nel convento di San Damiano cominciai a leggere i fioretti di san Francesco - libro dal quale non mi sarei più separato negli otto anni che precedevano la mia conversione. Uno straniero mi tirò fuori dalla mia solitudine e dalla mia inquietudine e mi condusse alla Pro Civitate Christiana dove, benché sconosciuto dai suoi membri, mi fu dato un saluto di tale cordialità che non potrò mai dimenticare.
Don Giovanni Rossi mi domandò con semplicità se stavo pensando di diventare cattolico. Il mio poco convincente “no” era una confessione.
Fu anche uno dei momenti decisivi della mia vita.
«Tornerò», dissi nel partire. Volevo nascondere a me stesso che stavo fuggendo dalla verità che mi aveva chiamato, il cui segno e simbolo era sorto nei miei quadri e mi aveva condotto ad Assisi. Non mi era ancora venuto in mente che questo tradimento di me stesso, del mio più profondo bisogno e desiderio, potesse coinvolgere un tradimento della mia pittura, quella pittura che aveva rivelato - e il Disco d’Oro aveva confermato - la brama per la mia origine e perfino suggerito l’identità di questa origine (...).

LA FUGA
Per rendere sopportabile e per giustificare lo stato innaturale di dissociazione, istintivamente, si cerca rifugio in quella falsa sicurezza di fare di noi stessi la misura delle cose (...).
Dal momento che non volli accettare la liberazione, che in realtà cercavo e non sapevo mi fosse stata offerta, volli simularla, sfogarla nei miei quadri. Mi sentii liberato e salvato dalla mia pittura, come il naufrago è salvato dal salvagente, e in un certo senso io vivevo di quadro in quadro, ognuno fatto con sempre più grande rapidità e intensità. Cominciai a intravedere in ogni opera una dilazione, una proroga a una possibile sentenza di morte che sentivo incombere su di me. Mi rifugiai sempre nell'ispirazione spontanea, nella sensibilità che afferrava l’immagine come dai venti del nostro mondo, così rapidamente mutevole (...).
Il mio romanticismo esigeva sensazioni sempre più nuove e stravaganti. Come assalito da un impeto cosmico per abbracciare tutta la terra in una monumentale immagine, viaggiavo rapidamente e costantemente, cercando nei simboli redentori degli altri i surrogati della mia stessa salvezza.
Quando non bastiamo più a noi stessi tendiamo a vivere come parassiti delle cose che incontriamo. Nella misura in cui avrei ingannato quella mia origine alla quale ero ora definitivamente chiamato, la mia pittura - datami come strumento per trovare questa origine e ora piegata al servizio del mio egoismo - cominciò a perdere di autenticità, di realtà (...) .
Se ero libero nel mio viaggiare, ero sempre più legato ai falsi surrogati proposti da me e non dalla mia origine (...).
Arrivato a questa perversione di simboli scrissi a un amico confessando la paura che la mia fuga dalla vita corrodesse perfino il centro creativo di me stesso.
Lentamente tutti i simboli ai quali mi ero attaccato come immaginaria risposta all’invito del mio Disco D’Oro si spensero esaurendosi in me perché non potevano darmi vita. (...)

LA CONVERSIONE
Tornai al mio studio in Italia. Nel mio spirito non c’era immagine. Non avevo né la volontà né la disperazione per dipingere.
La pittura, che fu per me la prima rivelazione, portava il seme della mia seconda rivelazione, la conversione. La luna o il Disco D’Oro che era sorto sopra la mia Città Nera del 1949 era diventato la Chiesa. Mi gettai in essa.
Tornai ad Assisi. (...) Fui convertito alla Chiesa cattolica il 29 agosto 1959 (...).
Come è accaduto? Che cosa veramente è accaduto? Cosa ha fatto crollare la mia resistenza? La struttura della mia personalità, le idee, gli entusiasmi, i gusti, le abitudini in cui ero vissuto, tutto cadde, e mi trovai spoglio degli appoggi sui quali avevo conosciuto il mondo e per i quali il mondo aveva conosciuto me (...).
Accadde piuttosto per una continuità, tutta una vita di incontri, di fatti, di eventi (...).
Rimasi nudo come uno straccio che teneva soltanto sassi, passi della mia realtà, i quali prevalendo dal mio subconscio e dalla memoria e liberi da ulteriori resistenze, si imposero su di me come strumento della Divina Provvidenza (...).
Queste le voci che si imposero su di me, che mi avevano seguito come angeli custodi. Queste le voci che ora decisero per me, dove io non sapevo più decidere per me (...).
Se il Disco era incorporato nella mia immagine, era pure incorporato in me come seme. Se la natura di questo seme mi era ancora ignota la sua presenza confermò che il seme c’era. Questo Disco d’Oro era una profezia della mia destinazione. (...)
Adesso cominciavo a vedere i miei precedenti otto anni di fuga come quella distanza che un pescatore concede a un pesce perché si esaurisca.
Eventi e incontri erano serviti a precipitare l’inevitabile momento della mia verità (...).
La vita ora sarebbe stata diversa? (...) Sentivo che sarebbe stata molto diversa perché non ero stato io, con lungo pensiero e preparazione a scegliere di essere convertito. Era la mia realtà lentamente accumulatasi con gli anni che traboccò e non più capace di sostenere o contenere la contraffazione che si era imposta sulla mia irrealtà. Nell’istante del sacramento del Battesimo sono stato strappato della mia vecchia vita e inserito nell’inizio di un’altra. Sentivo una confusione come se potessi appena camminare o perfino parlare coerentemente. Sentivo una grande gioia senza sapere il perché, smarrito e tuttavia sorretto da qualche universale potere e Presenza.
Scrissi ai miei genitori: «Per la prima volta nella mia vita non sono più solo. Non ho età, né peccato. Non ho paura del tempo. Non devo rendere conto a nessun uomo, né guadagnare niente sulla terra. Non ho altro dovere che di crescere nell’amore di Dio, conoscere Dio nella mia pittura o comunque come Egli ama me, morire in Lui e vivere per sempre». Dio vivente in me. Che pensiero! Non potevo ancora afferrare quel Suo amarmi infinitamente in un costante, continuo perdonare le mie misere, le mie difese, amorevolmente perdonando affinché in qualsiasi istante sempre potessi ricominciare sicuro nel Suo amore (...).

Uno ama allora non solo secondo l’inclinazione o il sentimento, ma ciascuno e tutti con lo stesso amore di Cristo che si sacrifica per la gioia e il bene degli altri. Nessun ideale umano può rendere possibile questo amore: è l’amore di Dio operante in noi. (...) Ora per mezzo di coloro che già vivevano in Cristo cominciai a prendere coscienza del Cristianesimo.
Il Cristianesimo è un nuovo principio. Un nuovo punto di partenza. È una svolta. Un nuovo inizio. Ciò che i greci chiamano metànoia. Il Cristianesimo non è una filosofia. Il Cristianesimo non è una dottrina. (...) È una Persona. Questa persona è Cristo (...).
Il Cristianesimo è un’ipotesi di vita, una promessa da verificare nella nostra vita vivendola quotidianamente. Una persona che diviene paragone per noi, quando seguiamo Lui minuto per minuto continuamene (...).
Ora incontravo coloro che avevano accettato di eseguire, obbedire e riconfermare la presenza di Cristo (...). Essere cristiano non vuol dire seguire le proprie inclinazioni; significa seguire Lui.
E la mia pittura? Potevo dimenticare la mia funzione di pittore? Avevo mai veramente capito la mia funzione di pittore? La funzione della mia pittura? (...).
Si era di nuovo insinuata in me la lotta fra lo stare e il ripartire, fra la mia posizione precedente e quella attuale da verificarsi nel quotidiano seguire Cristo (...).
Cominciai a capire le parole di Claudel: «La sola cosa che importa è la questione religiosa; io sono assai meno un artista che un cristiano, il quale si serve dell’arte per l’opera che Dio gli ha affidato». Scopersi che dipingere non era il fine della mia vita ma il posto che la mia origine mi aveva assegnato nella comunità cristiana (...).
I nuovi quadri che così abbondantemente nascevano dopo la mia conversione negli anni ‘60 e ’61 non erano comunque del tutto liberi dal pericolo che spesso assedia l’artista convertito.
Come scrive Jacques Maritain: «Egli sarà tentato di confondere il soggetto religioso al quale è ora attratto con la sua propria esperienza, che è l’unico vero soggetto di un’opera d’arte».
Nella mia pittura di questi due anni dipingevo il soggetto prima che la mia esperienza in esso fosse maturata come immagine pittorica. Se la mia espressione era autentica, l’esperienza che la generava non lo era. Ero ancora molto lontano dal vivere quella dimensione comunitaria che è la realtà cristiana e che sola può generare la più vera delle arti: quella sacra (...).

L'ARTE SACRA

L’arte sacra è l’espressione sensibile di un atto di vita nella dimensione della comunità autentica. Se per l’arte religiosa la misura è l’autenticità, per l’arte sacra è l’esistenza o meno della comunità (...).
La dimensione di Comunità della nostra origine è perciò dimensione in cui diventiamo consapevoli del nostro ultimo destino (...).
L’evento dell’arte sacra rende l’artista compartecipe non soltanto di una naturale e comune ricerca di qualche redenzione, ma proprio del vero intervento di quella precisa Redenzione promessa da Dio al genere umano (...).
La vita non avrebbe nessun senso se noi non credessimo in qualche forma di altra vita nella quale i nostri peccati siano perdonati e i nostri dolori siano trasformati in una gioia senza fine (...).
Nessun singolo artista che vive la sua particolare individualistica dimensione in una società dissociata, come è la nostra oggi, potrebbe mai concepire di costruire la cattedrale di Chartres.
La sua coralità unitaria sconfigge la dimensione individualistica.
Davanti alla follia della potenza creatrice di Dio con cui questa sublime opera si eleva come una città di Dio al cielo donde è sceso, non si può più nutrire il proprio privato isolamento, i sentimenti esclusivi per quanto siano geniali.
Niente definisce, niente sfida la nostra sociale irrealtà di oggi come Chartres.
Forse adesso possiamo cominciare a sentire quanto sia profondo l’abisso fra l’arte individualistica di oggi e quella comunitaria del Medioevo.
Costruire oggi una cattedrale come Chartres non sarebbe più possibile.
Forse possiamo anche cominciare a sentire quanto si limiti e si contraddica una cultura divorziata dalla fede. Fede in qualche verità trascendente che è l’unica ragione che permette ad una cultura di essere, e che le dia l’ambito per rimanere (...).
Il problema di oggi per l’artista non è di fare arte sacra come non lo è mai stato.
Fare arta sacra è un controsenso.
Infatti l’artista che vuole per forza fare dell’arte sacra in un ambito individuale impone un destino al popolo e automaticamente chiude la porta al sacro. Compito dell’artista rimane il dipingere, e nello stesso tempo vivere concretamente l’esperienza di comunità (...).
La creazione dell’arte è un mistero. (...) Quanto più un vero artista vive pienamente il suo vero essere umano più grande sarà la sua arte. E ciò avviene quando si lascia trasformare il suo istinto egoistico nel suo vero essere di persona inserita nella Comunità (...).
La dimensione comunitaria non consiste né nella presenza dela struttura fisica della Comunità, né nel fatto che Cristo si è manifestato. La Comunità è sempre esistita nell’uomo come sua origine più o meno riconosciuta, a volte implicita a volte esplicita (...). Cristo è la Comunità nel suo senso più pieno.

PROSPETTIVA
Come ricondurre l’artista - e con lui tutti gli uomini - alla sua origine nel centro della Comunità degli altri, se l’autentica comunità di oggi non esiste? Come risvegliare e confermare in granitica fede l’istintiva urgenza che hanno tutti di essere riuniti in Dio creatore? Come aiutare l’artista a scoprire e credere al suo vero essere? (...).
Erigere delle strutture di comunità per offrire agli artisti - e a tutti coloro che ne sentono l’esigenza - un’esperienza di autentica comunità cristiana, per ridestarli nella radice del loro essere...?

LA REALTÀ DI UNA NUOVA COMUNIONE
Comunione di vita però, non di arte! Difatti l’artista che si sente chiamato a questo rinnovamento di sé per poi partecipare ad un rinnovamento dell’arte deve per forza lasciar da parte la sua pittura. E la rinunzia di sé, della pittura posseduta fin d’ora come espressione propria, deve essere totale (...).
Essere cristiano si identifica in questo compito. Quanto più l’artista ora convertito alla Comunità di Cristo vive totalmente la dimensione di Comunità, tanto più gli verrà restituita quella pittura cui ha rinunziato. E gli sarà centuplicata la pittura (...).
E non dovrà neppure essere l’artista a riconoscere quanto sia più grande la sua nuova pittura (...) perché Dio, avendo dipinto in lui, se ne sarà già impossessato.
Poi e soltanto poi, l’arte ricantando l’essere si ritroverà strumento di approfondimento del mistero di Dio, tappa di quella Riconciliazione e Redenzione per cui, come dice San Paolo, “tutta la natura geme”».

Per concessione di “The William G. Congdon Foundation” – www.congdonfoundation.com