Sant'Ambrogio.

Don Francesco Braschi: «Ecco perché il sant’Ambrogio di Dario Fo non è mai esistito»

Nella pièce del Premio Nobel che torna in scena stasera, il patrono di Milano viene dipinto come un comunista, in lotta contro il potere del tempo. Un suo studioso ci spiega perché «è una lettura strumentalizzata e anacronistica»
Fabrizio Rossi

«Mettiamola così: si può raccontare la vita di Gianni Rivera senza parlare del Milan?». L’esempio può sembrare irriverente, ma rende bene l’idea. Per don Francesco Braschi, docente di Patrologia al Seminario arcivescovile di Milano, l’operazione con cui Dario Fo ha riscritto la vita di sant’Ambrogio - nella pièce Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano, che ha debuttato al Piccolo lo scorso ottobre e verrà rappresentata con qualche modifica stasera alla Camera del Lavoro di Milano - è più o meno la stessa: «Presenta la figura di sant’Ambrogio senza mai accennare alla sua fede e al suo rapporto con Cristo. Ne fa addirittura un comunista in lotta con il potere. Ma, se si taglia l’origine, come si fa a capirlo?». Don Braschi, classe 1967, in servizio presso la Biblioteca Ambrosiana, conosce bene il patrono milanese: gli ha dedicato la tesi con cui ha concluso tredici anni di studi all’Istituto Patristico Augustinianum di Roma, e nel dottorato ha approfondito i suoi commenti ai Salmi, raccogliendo poi in una pubblicazione di quasi 900 pagine i risultati delle sue ricerche.
Nel suo spettacolo Dario Fo sostiene che per sant’Ambrogio «la proprietà privata nasce dal furto». Si tratterebbe di un comunista ante litteram?
Ambrogio non può essere certo preso a modello del comunismo. È una lettura fortemente strumentalizzata della posizione sua e dei Padri della Chiesa, come Basilio Magno o Giovanni Crisostomo, sulla proprietà privata.
In che senso?
Secondo i Padri della Chiesa, Dio ha dato a tutti l’ordine di custodire, coltivare e dominare la terra, godendo dei frutti che sono un suo dono gratuito: la proprietà privata nasce dopo il peccato originale. Lo scrivono nei primi grandi commenti alla Genesi: Dio non ha destinato il mondo solo ad alcuni, per cui chi possiede un bene deve sentirsi responsabile anche per chi ne è privo. I Padri, da un lato, sostenevano la liceità della proprietà privata, ma dall’altro lato ricordavano anche la destinazione responsabile dei beni che un uomo può avere. A muoverli, era una motivazione eminentemente religiosa.
Nella rilettura di Fo, invece, sant’Ambrogio mirava a sovvertire il potere…
È un’interpretazione sbagliata e anacronistica. Alla radice di questa destinazione universale dei beni non c’era certo una lotta di classe, ma il riconoscimento che tutti gli uomini sono figli di uno stesso Padre. È per lo meno impreciso vedere Ambrogio come un uomo che, per difendere i deboli, attaccava il potere: egli, infatti, che aveva un background da alto funzionario imperiale e rimaneva - anche per la formazione ricevuta - estremamente leale nei confronti dello Stato, era invece fermamente contrario alla pretesa di assolutismo che aveva l’Impero romano, o persino lo stesso imperatore, quando riteneva di essere al di sopra di tutte le leggi nel disporre della vita e della coscienza dei cittadini. Non a caso, proprio Ambrogio iniziò a stabilire dei paletti sul ruolo dell’imperatore nei confronti della Chiesa. Ma, anche in questo caso, ciò che lo muoveva era un principio trascendente: la certezza che non è il potere a definire l’uomo.
Cosa manca, allora, nell’interpretazione di Dario Fo?
Proprio il trascendente, l’aspetto religioso. Senza prendere in considerazione il rapporto di Ambrogio con Cristo, viene a mancare la chiave fondamentale per comprendere tutta la sua vita e la sua opera. Così, si riduce la sua posizione a una generica affermazione di uguaglianza tra gli uomini... Per non parlare di alcune vere e proprie follie del copione, dove sant’Ambrogio viene addirittura visto come un possibile amante dell’imperatrice Giustina, solo per il fatto che i due appartenevano allo stesso ceto.
Su quali fonti si poggia la pièce?
Si vede chiaramente che Fo - che pure non lo cita nella bibliografia della pièce, edita da Einaudi - s’è ispirato soprattutto a Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital di Neil B. McLynn, un autore americano la cui opera, che presenta Ambrogio come un abile e cinico politicante, è stata vivamente contestata dagli altri studiosi. Delle altre opere, come lo studio fondamentale di monsignor Cesare Pasini, ha fatto una lettura molto ideologica e filtrata. Non si può comprendere un personaggio del passato, però, senza tener conto dei pilastri su cui si costruiva la sua visione del mondo: magari si può non condividerlo, ma va comunque mostrato qual era il suo orizzonte di senso. Questo è un principio base dell’indagine storica, ben più importante dell’appello - un po’ sgangherato a mio avviso - a Sartre e Tucidide che Fo pone quale premessa metodologica al suo volume. Del resto, quello di una concezione “selettiva”- e forse un po’ utilitaristica... - della ricostruzione degli orizzonti di senso nell’ambito della considerazione del passato è un problema molto diffuso nella nostra società post-illuminista.
Cosa intende?
Pensi a quanto è emerso nell’ambito del dibattito sulle radici culturali e valoriali dell’Europa: l’Occidente pretende di ritrovare i valori universali in un generico umanesimo, dimenticando che concetti quali la carità disinteressata e l’uguaglianza hanno la loro origine nella concezione del mondo giudaico-cristiana, prima ancora che nel pensiero illuministico e ben più che in quello greco-latino. Forse lo stesso Dario Fo non se ne rende conto, ma l’operazione è la stessa: staccare temi come l’uguaglianza e la fratellanza tra gli uomini, o una giustizia distributiva, da ciò che li genera. La lettura che ne risulta non è solo riduttiva, ma completamente falsata.