Il "Cesto di frutta" di Caravaggio.

CARAVAGGIO L'uomo che viveva nei suoi quadri

A quattrocento anni dalla morte, è in corso a Roma una mostra dedicata al "genio lombardo": dalla "Canestra di frutta" alla "Conversione di San Paolo", la vita dell'artista ripercorsa dalle sue opere, nelle quali ogni fatto diviene avvenimento
Cristina Terzaghi

Nell’estate del 1610, sulla via di ritorno per Roma, moriva a Porto Ercole, in circostanze ancora in parte avvolte nel mistero, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi: Michelangelo Merisi da Caravaggio. I quattrocento anni dalla scomparsa, celebrati da una importante mostra antologica, in corso fino a giugno a Roma, che si propone di esporre solo opere di certissima autografia, in modo da restituire il volto vero dell’artista, tessono più la sfortuna che la fama dell’artista. Dopo quasi tre secoli di silenzio infatti, la ripresa dell’interesse per la pittura di Caravaggio è segnata dagli studi di Roberto Longhi, che ha estratto il grande artista dall’oblio in cui era stato sepolto da secoli di critica disattenta, quando non ostile, per illuminarne l’opera con una indimenticabile esposizione, allestita presso il Palazzo Reale di Milano nella primavera del 1951. Da lì in avanti la fama e il successo dell’artista hanno conosciuto una crescita, che nell’ultimo decennio è divenuta esponenziale. Nessun pittore di quella che gli storici definiscono “età moderna” è giunto a tanto, ma, anche paragonando il successo dell’artista a quello di colleghi vissuti in epoche più recenti, l’unico a reggere il confronto è Van Gogh. Legittimo a questo punto interrogarsi sul perché di un così alto gradimento.
La storia in breve, per chi non la sapesse. Nato a Milano nel 1571 dall’architetto del potente marchese Sforza di Caravaggio, Michelangelo si forma nella bottega di uno degli artisti più celebri dell’epoca, Simone Peterzano, che a sua volta aveva imparato il mestiere a Venezia, dal grande Tiziano. A Milano l’artista rimane fino al 1588-1589, per poi rientrare a Caravaggio, da dove, all’incirca quattro anni più tardi, si mette in viaggio alla volta di Roma. Cosa dipinse il giovane Caravaggio in quel di Lombardia non è dato sapere. Gli anni settentrionali si riveleranno tuttavia decisivi per le scelte figurative del pittore, che in patria assorbe quell’interesse per la realtà che trama tutti i suoi dipinti. «Giunto a Roma con quel diavolo in corpo della pittura naturale», secondo una magistrale definizione di Longhi, Caravaggio ventenne, le prova tutte per campare e, se possibile, emergere. Prima dal Cavalier d’Arpino, il più celebre artista dell’epoca, che lo mette a “dipingere fiori e frutti” (e alla mostra romana si potrà ammirare la Canestra di frutta, un quadro che per la prima volta torna a Roma da quando giunse a Milano nella collezione di Federico Borromeo), poi realizzando quadri da piazzare sul mercato tramite rivenditori occasionali. Per questa strada, non ci vuole molto per farsi notare, e in meno di tre anni lo ritroviamo sotto la protezione del suo primo grande mecenate, il cardinal Del Monte, grazie al cui interessamento ottiene finalmente una commissione pubblica in grande stile: il Martirio e la Vocazione di San Matteo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (e in quella sede le opere rimarranno anche nel corso dell’esposizione romana, che ha scelto di non chiedere prestiti alle chiese). Siamo nel Giubileo del 1600, Roma pullula di pellegrini, tra cui parecchi artisti. Quelle tele le vedono tutti, e molti strabuzzano gli occhi. Lo apprendiamo dalla massima autorità artistica dell’epoca, il pittore Federico Zuccari, principe dell’Accademia di San Luca. «Che rumore è mai questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione», esclama davanti a quelle opere, tentando di ricondurre la novità dirompente delle tele all’alveo rassicurante della pittura veneta, allora molto nota. Ma l’astro di Caravaggio è ormai alto, impossibile oscurarlo. Dopo la Contarelli, altre commissioni eccellenti: la Conversione di San Paolo e il Martirio di San Pietro per la cappella Cerasi, con tanto di contratto che lo celebra: «egregius in urbe pictor», l’artista più insigne della città; poi per la chiesa di San Filippo Neri, la Deposizione (un capolavoro di Caravaggio che si muoverà eccezionalmente dalla Pinacoteca Vaticana per venire esposta alla mostra antologica); quindi le tre grandiose pale mariane; in mezzo opere somme per gentiluomini privati. Di particolare interesse, a questo proposito, sono le tre versioni del San Giovanni Battista che i curatori della mostra hanno deciso di esporre una accanto all’altra perché sia possibile confrontarle.
Una carriera sfolgorante, ma il pittore sembra non curarsene troppo. Raccontano le cronache che, finito un dipinto, gira per tre mesi con la spada, uno scudiero e il cane al fianco, pronto a passare da una rissa a una taverna. Non è strano che il disordine finisca in tragedia. Accade nell’estate del 1606, ferisce a morte Ranuccio Tomassoni capo rione (commissario, diremmo oggi?) di Campo Marzio, in seguito ad una lite per una partita al gioco della pallacorda. Il Papa stavolta non chiude un occhio e Caravaggio è costretto a fuggire, condannato alla pena capitale. Da Roma giunge a Napoli, dove le commissioni continuano a fioccare, e lui a sfornare dipinti. Poi una grande occasione: Fabrizio, figlio di Costanza Colonna Sforza, marchesa di Caravaggio, protettrice del pittore da quando era fanciullo, è a capo della flotta di navi che fa vela per Malta. L’isola era meta ambita per chi volesse prendere la croce di cavaliere dell’ordine gerosolimitano e Caravaggio, non si sa se spinto da zelo, dal desiderio di nuovo, o dall’ansia di ottenere un lasciapassare che gli guadagni la grazia papale, si imbarca. A Malta domanda di entrare nell’ordine. Reo di assassinio, gli serve un permesso speciale e così il Gran Maestro si rivolge al Pontefice in persona per ottenere la dispensa. Questa volta Paolo V acconsente, e Caravaggio riceve la croce dell’ordine dei Cavalieri di Malta, dipingendo per la cattedrale del posto uno dei suoi quadri più belli: la Decollazione del Battista (che per le notevoli dimensioni non viaggia facilmente, ed è dunque rimasta a Malta). Doveva andarne fiero: per la prima e unica volta nella sua vita firma un dipinto e lo fa nel sangue della testa del Battista che giace riversa, aggiungendo le lettere “fr”, cioè “frater”, compagno, finalmente appartiene a qualcuno. Dura poco, però. In seguito a una nuova rissa, finisce in carcere e viene espulso dall’ordine. Fuggito di prigione, raggiunge la Sicilia, poi ancora Napoli, continuando a creare capolavori. Ma è un uomo braccato. Lo dicono i contemporanei: ha “il cervello stravolto”. Nel frattempo la speranza del ritorno a Roma diviene certezza. Si imbarca da Napoli a quella volta, ma fa naufragio. Riesce a raggiungere Porto Santo Stefano, ma sfinito dalla febbre, muore prima di arrivare nella città eterna, dove il Papa gli sta preparando la grazia.
Ce n’è da vendere per qualsiasi amante di noir. Ma sarebbe un errore pensare che, a distanza di 400 anni, Caravaggio attiri le folle per la sua vita da romanzo, che peraltro i più non conoscono. Quel che forse ancora oggi seduce nella sua opera (e che invece è totalmente assente da quella dei suoi contemporanei), è quella totale e personalissima immedesimazione con il soggetto trattato, che lo conduce a stravolgere ogni iconografia, che esce come nuova dal pennello dell’artista, quasi la si vedesse per la prima volta. C’erano state migliaia di “Giuditta e Oloferne”, prima di quella che vedremo a Roma, eppure solo questa sembra l’istantanea di un delitto.
Che si autoritragga (e in mostra si potrà ammirare il meraviglioso esempio della Cattura di Cristo di Dublino, dove l’artista si raffigura nell’atto di alzare la lampada che illumina la scena) o meno, Caravaggio è sempre l’io narrante dei suoi quadri. Egli sottopone il soggetto che gli deriva dalla tradizione (mitologico o sacro) ad una spassionata verifica: «Ed è qui che la serietà intellettuale di Caravaggio meglio risalta, rilevando come, senza rifiutare quei soggetti, egli si provasse a ritrovarne il fondo di eterna comprensibilità umana», scriveva ancora Longhi nel 1951. Nel confronto con il dato reale, l’artista decide di raccontare non lo svolgersi dell’azione, bensì il culmine dell’evento. Per il cuore dell’uomo Merisi (che si fa compagno di chiunque si accorga del proprio), ogni fatto diviene così avvenimento, e per di più contemporaneo: la Conversione di San Paolo (la vedremo esposta a Roma), un incidente di viaggio; il Martirio di San Matteo, un fattaccio di cronaca nera; la Morte della Vergine, il dolore sconfinato per la perdita di una giovane donna. Mai si era giunti a tanto, difficile stabilire se si sia oltrepassata quella soglia.

La mostra sarà aperta dal 20 febbraio al 13 giugno a Roma presso le Scuderie del Quirinale.
Per informazioni: www.scuderiequirinale.it