Havel e l'arcivescovo Duka.

Un dissidente che aveva «fame di significato»

L'arcivescovo di Praga Dominik Duka ricorda il primo presidente della Repubblica Ceca, morto esattamente un anno fa. Si erano conosciuti in carcere, dove il regime li aveva rinchiusi. Ecco la storia di quell'incontro. E di un'amicizia imprevedibile
Angelo Bonaguro

Quando parla di Václav Havel, suo vecchio compagno di prigionia scomparso il 18 dicembre 2011, il cardinale Dominik Duka abbandona la diplomazia per lasciare spazio al ricordo affettuoso: «Non ho le competenze per parlarne come di un drammaturgo… Posso parlare del mio amico Václav, organizzatore dell’“autogestione carceraria” e di gesti di carità nascosti che ha saputo intrecciare col mondo del teatro e dell’arte».

L’uno, Duka, è l’arcivescovo di Praga. L’altro, Havel, è stato il primo presidente della Repubblica Ceca.
Quando si incontrarono nel carcere di Plzen-Bory, Havel era già famoso nel dissenso cecoslovacco e all’estero. Nato nel ‘36 in una famiglia benestante e legata al mondo della cultura e della politica, non aveva potuto terminare gli studi umanistici a causa delle sue «origini borghesi». Dopo l’invasione sovietica del ’68 cominciò ad esporsi con analisi critiche della realtà socialista che gli valsero l’ostilità del regime. Nel 1976 era stato uno dei fondatori dell’iniziativa civile Charta 77, cui si affiancò di lì a poco il “Comitato degli ingiustamente perseguitati”, sorto per aiutare le vittime delle repressioni e le loro famiglie. Havel era finito in carcere nel ’79 proprio per essersi coinvolto in queste attività.
Da parte sua Jaroslav Duka aveva lavorato come operaio ed era entrato clandestinamente nell’Ordine domenicano (ufficialmente soppresso) dove aveva assunto il nome di Dominik. Consacrato sacerdote nel ’70, nel ’75 gli fu tolto il permesso statale di officiare e si impiegò alla Skoda di Plzen. Contemporaneamente seguiva in clandestinità la formazione dei novizi domenicani, e questo gli costò l’arresto e la condanna proprio nel periodo in cui Havel e altri dissidenti erano a Bory.
«Era il 17 febbraio dell’82 – ricorda il porporato – quando mi misero tra i “politici”, gli “attivisti religiosi” e gli “avversari ideologici”… Havel era un’autorità, ma fino ad allora non l’avevo mai visto di persona. Un giorno un detenuto mi disse: vai alla bacheca, c’è un certo Havel che vuol parlare con te… Aveva l’aspetto di una persona molto timida e fine. C’erano delle questioni di cui mi voleva parlare». Havel diede al «novellino» un sacchettino di tè e i buoni da usare allo spaccio, e da allora iniziò la loro amicizia.

Il dialogo tra Duka e Havel toccò anche questioni filosofiche e religiose. Havel era in contatto epistolare con alcuni amici filosofi – in maggioranza cristiani – per i quali raccolse le riflessioni maturate in quei dialoghi in una quindicina di lettere che chiamò «Il sacello». Quando Duka tornò in libertà gli chiese di contattare Neubauer, uno dei filosofi, perché scrivesse un’introduzione alle lettere che furono diffuse nel dissenso e costituirono il primo nucleo (nn. 129-144) delle Lettere a Olga. Neubauer scrisse che Havel non aveva molta familiarità col cristianesimo, ma dopo gli incontri con Duka gli era venuta una grande curiosità di guardare oltre quella soglia del mistero su cui si era sempre fermato, e aveva capito che l’agire umano è correlato con la trascendenza.
Nel «Sacello» Havel parla dell’esistenza dell’io «gettato nel mondo» ma capace di entrare in rapporto con l’Essere che l’ha originato: «Con l’avvento dell’umanità… è nato il miracolo del soggetto. Il mistero dell’io, l’enigma della libertà e della responsabilità». Per il dissidente l’uomo è caratterizzato dalla «irrefrenabile necessità di andare oltre gli orizzonti contingenti», spinto dalla «fame di significato»: «Si può forse dire che l’io è proprio questa ricerca di significato, del senso delle cose, delle azioni, della propria vita, di se stessi». L’uomo «ha di fronte a sé due alternative: cercare un modo di vivere con il quale poter essere in contatto con l’Essere (…) e così accettare per sempre il mondo come fosse una porta dischiusa verso l’Essere; o può allontanarsi dall’Essere».
«Un mondo che si è arreso scaturisce dalla crisi dell’integrità dell’uomo, dalla crisi del mondo interiore, dalla crisi del soggetto come tale», è l’«esperienza della perdita della relazione con l’Essere: (…) che tutto sia o meno perduto dipende esclusivamente dal fatto che io sia o meno perduto».

Nel 2011, poco prima della morte, Havel si era rivisto con Duka per un’intervista televisiva in cui ripercorsero quella loro convivenza: «Durante la ginnastica obbligatoria in cortile, tra un esercizio e l’altro, tu ci tenevi delle brevi riflessioni, ma – aveva scherzato Havel tra le pieghe della voce che veniva meno – non tutti sono capaci di predicare facendo ginnastica!». «Tu invece – aveva replicato Duka – ti eri inventato un rosario annodando le stringhe delle scarpe… Devo riconoscere che da allora non ho avuto più così tanto tempo per parlare di questioni filosofiche e teologiche».
Quest’anno Duka celebrerà una messa di suffragio per il presidente Havel, perché tale è rimasto nella coscienza popolare – e ci aveva pure scherzato: «Noto che la gente non sa più come rivolgersi a me, qualcuno dice “signor presidente” oppure “signor ex presidente”, qualcun altro “signor Havel”; sto aspettando di sentirmi chiamare “signor ex Havel”...»