Vincenzo Foppa, “I tre crocifissi”, 1456.

I tre crocifissi, la «pittura che si fa carne»

Un'umile adesione alla realtà: ecco che cosa distingue l'opera del grande artista lombardo. Un pittore che seppe trattare le forme «con affettuosità». In occasione della Settimana Santa, l'esposizione del dipinto al Museo Diocesano di Milano
Giuseppe Frangi

Scrisse il più grande storico dell’arte del Novecento, Roberto Longhi, che «il racconto di quella preistoria pittorica che ci condurrà sino all'apparizione tonante di Caravaggio» partiva proprio da qui: da Vincenzo Foppa, grande artista nato a Bagnolo, provincia di Brescia, intorno al 1430. Longhi scrisse su Foppa delle pagine meravigliose all'interno di un saggio di importanza storica, quello in cui per la prima volta venne affrontato il tema delle radici di Caravaggio. Era il lontano 1929 e Longhi, contro tutte le tradizioni critiche, faceva riemergere l’importanza di una storia, sempre catalogata come storia minore, che invece era la matrice della rivoluzione caravaggesca.

Questa storia è quella della pittura in largo senso padana, e in accezione più stretta lombarda. È ben noto come l’arrivo a Padova del genio ribelle del 400 fiorentino, cioè Donatello, avesse dato come una scossa a tutte le botteghe artistiche della pianura. Donatello aveva liberato un’energia espressionista che avrebbe vitalizzato in maniera imprevista e a tratti travolgente quelle tradizioni sino ad allora rimaste chiuse nel guscio protettivo di un tranquillo provincialismo. A Padova, scrisse allora Longhi, doveva essere passato certamente anche il giovane Vincenzo Foppa: se non ci sono documenti di supporto, parlano certamente le opere giovanili, con la loro intensità e la loro materia quasi febbrile.
Tra queste opere la più famosa è quella ora esposta al Museo Diocesano di Milano (un’idea semplice ed intelligente del suo direttore Paolo Biscottini in occasione della Settimana Santa) e abitualmente custodita all’Accademia Carrara di Bergamo, pinacoteca ora in fase di ristrutturazione.
Il titolo rende omaggio a una scelta iconografica del tutto rara: dietro un grande arcone di sapore classico, Foppa ha infatti dipinto i Tre Crocifissi sul Golgota. Tre Crocifissi, dunque, e non semplicemente una scena della Crocifissione. Infatti il Golgota è deserto e i tre “condannati” sono soli. Al centro Cristo emerge per dimensioni, contravvenendo una regola prospettica; a destra si contorce il cattivo ladrone; a sinistra, il buon ladrone (il primo uomo ad andare in Paradiso), ha la testa reclinata nella pace della morte. Evidentemente Foppa ha concepito una scena non narrativa, ma devozionale, in cui si spinge chi guarda a meditare sul mistero della Croce, mettendogli a disposizione quell’ambiente claustrale dipinto in primo piano.

Ma pur trattandosi di una visione, la capacità di Foppa di rendere naturalisticamente la scena è ben evidente. Ed è proprio questo l’aspetto che Longhi notò e da cui prese la sua ricostruzione dei precedenti di Caravaggio. Scrisse Longhi: «L’apparente scenografia classica è imbevuta, talora corrosa da un lume, da un’ombra che non son più gotici perché soffiano in uno spazio più carreggiabile, ma neppure si dovrebbero misurare col metro del chiaroscuro masaccesco, per quella affettuosità, direi, che li rapprende ed impigra nelle forme, e gl’impasta con esse». In sostanza Longhi nota in questo Foppa giovanile (il quadro risale al 1456, anche se sulla data incisa nel muretto sono sorti molti dubbi), un qualcosa di assolutamente nuovo nella pittura italiana: una capacità di cogliere luci atmosferiche e non più mentali come accadeva nella grande tradizione fiorentina. Non solo: queste luci, a differenza della tradizione veneziana, non evocano visioni dal sapore agreste e bucolico, ma richiamano una dimensione di realismo. Sono luci che accettano anche di sporcarsi, di imbrunirsi, di precipitare in ombre buie e improvvise. In un’altra opera famosa di pochi anni dopo, il San Girolamo, la luce sarebbe stata per la prima volta una luce non frontale ma laterale.

Ecco perché in questa piccola tavola di Foppa c’è il primo germe di quello che sarebbe stato Caravaggio. È pittura che aderisce con umiltà, ma anche con grande consapevolezza alla realtà. I corpi non sono solo forme ben plasmate nello spazio, ma sono forme vere, rese con un’affettuosità (la definizione è di Longhi) come se si avesse a che fare con corpi veri. È pittura che teneramente si fa carne; è un colore che si fa calore. Davvero in Foppa c’è qualcosa di germinale. Si avverte il senso di un inizio, di un nuovo che si affaccia, con qualche balbettio formale, che rende il tutto ancora più credibile e più vero.