Tanzio da Varallo,<br> Pala Lumellogno (particolare).

Fioretti sì, ma di fiori e di chiodi

Irruente e dolcissimo. Innamorato e durissimo. Rivoluzionario e fedele. Con la povertà «s'abbracciò, si impastò, divenne tramite Cristo, una cosa sola». Seconda puntata del ritratto che del santo di Assisi fece Giovanni Testori
Giovanni Testori

Tommaso da Spoleto, nella sua Historia pontificorum, 1266, afferma d’essere stato presente al sermone che S. Francesco tenne sulla piazza antistante il palazzo comunale di Bologna e così annota: «non aveva stile d’uno che predicasse, ma di conversazione. In realtà tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace». E, poi, continua: «portava un abito dimesso; la persona era spregevole, la faccia senza bellezza». Rammentiamoci di questa mancanza di bellezza; poiché, appena dopo la morte, il corpo e il viso di Francesco parranno invece, a tutti, bellissimi.

Ma sul realismo senza scampo, sulla concretezza globale e totalizzante dell’esperienza francescana, se letti con attenzione, possono dirci moltissimo anche gli anni precedenti l’abbandono del mondo. Che non furono anni di levità e leggerezza, come s’usa ripetere, ma, per dir così, anni di o della prova negativa. Praticamente il suo distacco dal mondo e, in modo drastico e totale, dalla ricchezza e dall’avere (intesi appunto come ostacoli all’incarnazione della Parola) ebbe a svolgere, proprio allora, una verifica per via di dispersione e di disfacimento della ricchezza e dell’avere in cui Francesco era pur nato; che è operazione ben più prossima o meno lontana dal rifiuto, di quella che avesse mirato a conservare sia ricchezza che avere: o a goderne in allegra positività e devianza.

Volendo (e non ci pare proposizione troppo arrischiata), quanto a concretezza e a fisicità, come segno creaturale interno, ma altresì come segno rivelato e accresciuto dagli eventi, dunque dai segni esterni (che son pur essi da riportare alla volontà di Dio), potremmo addirittura risalire all’origine del suo nome. Francesco non fu battezzato come tale; bensì col nome di Giovanni; almeno così decise la madre Pica, trovandosi in quel tempo il padre, Pietro di Bernardone, in Francia, nazione con cui intratteneva strettissimi rapporti di commercio laniero. Si diede che, al ritorno, in omaggio al panno che era oggetto di quei suoi commerci e che, per venire di Francia, si chiamava, appunto “francesco”, avvenne, dicevo, che il padre, con un gesto di realismo al tutto utilitario e strumentale, certo di nessunissima rilevanza religiosa, facesse cambiare il nome del figlio da Giovanni in Francesco.

Questo gesto apre una considerazione che mi sembra di doppia significanza: ancorché, alla fine, i significati s’abbraccino e si rivelino essere uno solo. Tale considerazione riguarda una quantità estrema di concretezza familiare (dunque del luogo di nascita e di formazione) e lacerazione che, in quella concretezza, ebbe a operare la Parola; permettendo che si facesse realtà e carne in una diversa, anzi opposta direzione: quella dell’assoluta, totale rilevanza religiosa e, dunque, umana. Lo Spirito, il Padre e il Figlio irruppero nel cambiamento del nome di battesimo per mutarne il senso, che era stato strumentale e forse, di natura interessatamente feticistica; ma ne conservarono, anzi ne potenziarono la sodezza e, usiamo pure il termine, la “praticità” e l’“utilità”.

Fu come se, nella loro sconfinata e onnipresente consapevolezza, Padre Figlio e Spirito avessero voluto, già dal nome, avvertirci circa l’impossibilità di staccare, in quella che sarebbe stata l’esperienza del Santo assisiate, il dato storico della sua estensione più che simbolica, esemplante. A questo punto possiamo forse arrivare a una prima conclusione: gli atti della vita di Francesco, i suoi fioretti, non sono in nessun modo riducibili a una catena di simboli. Quanto alla catena di favole, si tratta d’interpretazione che abbiam già detto essere del tutto esterna: anzi interessata e aberrante.

Essi contengono in sé, proprio nella loro creaturalità e, se si vuole, vegetalità di “fiori”, una carica che li fa essere atti continui, atti perpetui e perpetuizzabili; dunque, veri e propri exempla. Ora quegli atti, quegli exempla, più che per essere decifrati, ci vengono davanti come gesti e, in totale, come vita da seguire; da imitare. Ma l’imitazione di Cristo non fu, per l’appunto, il sangue e il fuoco di tutta l’esistenza di Francesco, il suo centro, il suo chiodo o, forse, che è dir meglio, il suo perpetuo inchiodiarsi o, jacoponicamente, il suo perpetuo «inchiavellarsi»?

Infuocato, ma d’un fuoco in cui repulsione e attrazione, risolvendo i loro opposti in unità caritativa, risolsero per la prima volta in positività cristica la negatività dissipatrice dell’esperienza giovanile; infuocato, dicevo, fu il primo atto completamente attivo di quella vita e di quei fioretti. Io non so se sia lecito parlare di conversione. Parrebbe, forse, più esatto considerar tale atto come momento ulteriore d’una prova già in fieri, ancorché inconsapevole e, ripetiamo, svolta in negativo, della tensione ultima e prima; quella d’aggrapparsi alla croce; di riessere lei; e, umilissimamente e indegnissimamente, chi vi fu inchiodato e vi si offrì per la morte.

Per Francesco la “caduta da cavallo” fu un bacio (il bacio, per l’appunto, al lebbroso o ai lebbrosi); ma rimase caduta; precipizio o avvio d’un precipitare senza fine all’interno del costato immenso e sanguinante di Cristo; che significava precipitare altresì senza fine all’interno del costato parziale e contaminato dell’uomo.

L’episodio è tra i più conosciuti. Ma, forse, val la pena di riportarlo nell’ellisse sincretica che ce ne diede lo stesso Francesco dentro il suo primo Testamento (1226): «Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara veder i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi stetti un poco e uscii dal mondo». Converrà notar subito come amaro e dolcezza siano qui fatte appartenere contemporaneamente, e inscindibilmente, all’anima e al corpo. Altre testimonianze, soprattutto le Vite di Tommaso da Celano, arrivano all’episodio dei lebbrosi, da alcuni riferito ad un solo lebbroso davanti al quale Francesco si sarebbe inginocchiato per baciarne la mano pustolosa e sconciata; altre testimonianze, dicevo, arrivano a questo primo atto dopo averci narrato anteriori e già dirette esperienze d’“uscita dal mondo”; come quelle relative alla sua malattia, alla nausea d’ogni bellezza del creato visitata attraverso ottiche esclusivamente “mondane”, ovvero al suo ritiro nelle grotte per stringere a sé il tesaurum di cui osava parlare solo con un «giovane che amava più degli altri» (figura, questa, del giovane rimasta ignota, nella quale con ogni probabilità si riflette la posizione e il privilegio dell’evangelista Giovanni nel confronto degli altri apostoli). Ma, vista la contrazione violentissima che, nel suo Testamento, Francesco ha operato in favore del rapporto coi lebbrosi, converrà anche a noi contrarre il suo passare dal negativo a positivo nel pugno di quel rapporto; e di quella misericordia.

Così risulta subito grandemente, e insieme tragicamente e santamente sintomatico, che a farsi luogo della concessione della grazia del Signore, sia l’uomo malato (e rammentiamo pure, altra volta, la malattia citata da Tommaso da Celano); la deputazione perché Francesco riconosca il suo senso, l’essere egli strumento d’un disegno d’amore di Dio, è il corpo malato, il corpo povero, il corpo disperato, il corpo reietto, il corpo rifiutato. È, dunque, lì che la Parola mostra di rivelarsi con maggior forza e maggior luce?

Se la malattia è mancanza di qualcosa che, secondo i metri mondani, farebbe o presumerebbe a uno stato di perfezione o, quantomeno, di completezza, è ben certo che la malattia rappresentò per Francesco il primo segnale che, per essere uomini di Cristo e in Cristo, è necessario collocarsi volontariamente in uno stato di mancanza, dunque, di penuria; diciamo pure la santa, dolce e terribile parola che è poi la santa dolce e terribile realtà che Francesco elesse come sua sposa; nello stato di povertà assoluta; tale da essere noi stessi lei, la povertà. Anzi, quello stato - ci dice Francesco - è assolutamente necessario cercarlo. Ma la povertà malata (e malata di lebbra) è povertà da esiliati e da confinati; oggi potremmo anche dire da prigionieri dei lager, dei gulag e di droga. E, la povertà, prima determinata, poi irrisa, e strozzata nella sua stessa possibilità d’esistere come povertà; cioè come agonia di sé medesima. E questa, proprio questa, la povertà che Francesco predilesse ed amò. È con essa che egli volle giacere e unirsi fino a formare una sola essenza. Ed è a questa povertà ed essenza che Francesco invitò tutti i suoi fratelli. Questa fu, per Francesco, uscire dal mondo. Gettarsi nel mondo malato, nel mondo depauperato, nel mondo conculcato, nel mondo strozzato; e gettarsi al punto di volere e desiderare di farsi quello stesso mondo; fino, appunto, ad essere egli stesso depauperato, conculcato, deriso, strozzato. Giunti a questo punto non ci sembra davvero più possibile tentare metafora alcuna. Il luogo di quella scelta e di quell’unione fu subito, e per sempre, il Golgota; fu subito, e per sempre, la Croce. Fu, insomma, il punto, storico e geografico, in cui da una parte s’era consumata la violenza e dall’altra violenza era stata subita affinché proprio l’oscenità di lei, la violenza, avesse la sua sola possibilità di riscatto e di trasformazione; dunque, di redenzione; affinché essa si autostrozzasse per addivenire al suo contrario, cioè a dire, alla memoria dell’origine, che era stata per l’appunto un atto di carità totale; insomma per addivenire alla Vita. Fu il luogo di quell’amaro di cui Francesco ci aveva detto come, dopo l’incontro coi lebbrosi, si fosse trasformato in dolcezza.

Il tramite di tale mutazione fu lui, il depauperamento totale; e anche la totale mancanza e la totale malattia. Infatti, alla croce Cristo arrivò colpito, sputato, ferito, carico di tutti i dolori; v’arrivò come schiavo; e nudo. Non a caso le sue vesti vi furono vendute. Francesco decise di vendere le proprie per risarcire e vendicare con l’amore e nell’amore quella prima, terribile vendita. Prima, terribile e che, tuttavia, si pose come irrinunciabile; come necessaria; perché venne operata per scelta d’amore e dentro la volontà stessa del Padre. Il realismo di questo primo atto francescano, che s’estenderà poi in una salita continua di perfezione (cioè a dire di continuo annientamento “mondano”), fu senza esitazioni e senza fratture; ebbe, insomma, la concretezza di carne e di ossa che, appunto, si denudano e restan lì, inermi, ai rigori degli inverni e alle atrocità delle calure; che cercano le condizioni del disagio e, persino, della derisione; dunque, le più prossime a quelle del Golgota e della Croce. Rammentiamo la descrizione che, di Francesco, abbiamo poco prima citato: «la persona era spregievole». Francesco si colloca nel disprezzo; almeno se misurato sui canoni del mondo. Ma, di quale mondo? Quello da cui era “uscito”. E qual era, tale mondo, se non il mondo che determinava e voleva la violenza, la malattia, la penuria, la povertà, la fame, il soffocamento e, insomma, la morte per gli altri uomini trasformati così in “sudditi”? Era il mondo “costruito”, che tentava e tenta di sopraffare, stritolare e uccidere il mondo “creato”. Credo che si possa dire, senza troppi timori, che fu proprio da lui, dal mondo “costruito” oggi noi diremmo dal mondo “sociale”, che Francesco volle «uscire».

Sostiamo per un attimo, sul verbo prescelto. Francesco non ha scritto (o dettato), “fuggire”: ha scritto (o dettato) «uscire». Il che, oltretutto, è più feriale, quotidiano e dimesso. Si esce da casa per tornarvi, dopo lavoro, la sera. Francesco sa che la sua “uscita” dal mondo, per raggiungerne il senso reale, deve accadere ogni giorno e, dentro ogni giorno, ogni ora. E mentre la fuga postula l’eversione e, con moltissima probabilità, il non-ritorno, l’uscita postula, immediatamente, il percorso contrario; poiché il disprezzo non riguarda il mondo “creato”, bensì il mondo “costruito”; quel mondo che s’è sovrammesso al primo fino a scardinarlo; certo a impedire che esso potesse procedere nel senso del disegno voluto dal Dio creante.

È a questo punto che l’azione di Francesco si fa “scandalo”; e si fa scandalo proprio nel senso per cui, al secondo mondo, il mondo che abbiamo detto costruito, è sempre parsa scandalosa la Croce e scandaloso Colui che la scelse per esservi crocifisso. Scandalosa, e scandaloso perché non comprensibili, non spiegabili, non, riducibili ai termini, via, via inventati e contraddetti dai vari e susseguentisi patti di società.


L’esperienza del Santo assisiate sarebbe dunque primariamente “a-sociale”? La sua uscita non sarebbe dunque, e in alcun modo, ricomponibile ai metri e, ai meccanismi di ciò che oggi chiamiamo appunto, il “sociale”, senza per altro saper più di che, in realtà, si tratti?

Un minimo, e fermiamoci pure al minimo; un minimo, dicevo, di rispetto alla radicalità di tale esperienza ci vieta di proporre come possibile tale ricomposizione. Del resto, in Francesco, si trattò sempre di comporre; mai di ri-comporre; proprio come si trattò sempre d’incarnare lei, la Parola e non di tentarne un’approssimazione. Ora l’avvenimento di tale incarnazione, se non è petizione, è ancor meno ripetizione. La creaturalità dell’incarnazione è sempre totale; ed è sempre ex-novo. Proprio in quella sua totalità, in quel suo essere sempre nuova recupera dentro di sé il passato; senza lasciarsene tuttavia mai condizionare; anzi lo recupera in modo tale che la sua urgenza d’amore quella che Jacopone proprio per Francesco ha stigmatizzato con la straordinaria definizione di «smisurata amanza», non progettò il futuro (il che implicherebbe, in un certo senso, metodologie astraenti), ma generi da sé, i semi e i germi di quello che sarà poi futuro.

Si torna, insomma, alla fecondità della Parola che, come genera i figli così genera il tempo; il presente: e, nel presente, il presente successivo; cioè, il futuro; in cui il passato, non solo resta tutto coinvolto, ma, il che più conta, conserva tutto il suo valore di movimento da e verso l’eterno.

Come al passato, al presente e al futuro, l’a-socialità di Francesco propone a quell’altra contraffazione del mondo che è la “società” meramente “sociale”, una soluzione che, ben lungi dal distruggerla, mentre drasticamente la nega come atto autonomo la realizza, in quelli che sono i suoi dati creaturali e creativi, riportandola al suo valore originario di dipendenza.

È in questo che Francesco esce dalla “società sociale”. Così, persino quando, per forza di realtà e, insieme, per amore ed obbedienza alla Chiesa, sembrerà prendere in considerazione una forma qualunque del “sociale” (come avvenne a proposito della costituzione delle Regole), lo farà umiliando ulteriormente se stesso, dunque usando metodologie al tutto contrarie alle pratiche e alla tecnica normalmente proprie al “sociale”. Lo farà, insomma, depauperandosi ulteriormente; e, ad esempio, mettendo la propria Regola sulla misura di chi, egli capiva, non avrebbe potuto reggere alla temperie che per lui s’era invece fatta naturale. Si diceva che Francesco dal “sociale” uscì scandalosamente, come scandalosamente uscì dal mondo. Ma anche questo gesto egli lo compì per amore della società in cui il mondo, s’era andato strutturando; anzi, con maggior giustezza, per amore di quanto dell’uomo, dunque della creazione, in quella società e in quel “sociale” si trovava coinvolto, imprigionato, soffocato. L’asocialità di Francesco liberò l’uomo che aveva costruito una società meramente “sociale” e gli permise di nominare anche questa ex-novo.

La povertà come desiderio e come sola reale efficienza; la povertà come condizione unica per veramente e liberamente essere uomo fu certamente ciò che più sconvolse e sconvolge, tuttodì i piani delle strutturazioni civili che la storia s’è, via via dati? Ma li sconvolse e li sconvolge per annullare società e storia o non invece per riportarle, con la propria individuale e collettiva “passione”, al luogo in cui esse risultano finalmente realtà reali e non ipotesi astratte o sovracostruzioni violentate in partenza e violatrici esse stesse nel loro farsi atti? Lo stato agonico del mondo e della creazione, quello che Francesco chiamò «amaro» è certamente il dato ineliminabile di partenza; tanto ineliminabile che la “ricostruzione” del mondo attraverso l’esclusivismo e il mitologismo “sociale” ha come proprio fine il suo superamento; o, non riuscendovi, la proposta della sua totale dimenticanza. Ma è proprio per dar senso all’«amaro», per dar senso all’agonia, che Francesco addita l’insidia implicita in tali sovracostruzioni e il loro fatale disattendere alle richieste di non-agonia, di non-amarezza, insomma di speranza e di felicità che formano il sangue dell’uomo, del mondo e della creazione; anche per ciò che concerne le istanze e i problemi della conoscenza. Istanze e problemi che Francesco, con la sua enorme capacità ellittica (ma si tratta di un’ellisse che abbiam già definito abbraccio) risolve nell’abbandono al Dio della Verità, al Dio della Sapienza che è, in primissima e ultimissima istanza, il Dio della Carità. La Virtù di cui vivrà l’universo, una volta che la storia si sarà tutta estinta, è per l’appunto, lei, la Carità. Verità e sapienza vi risulteranno comprese perché sciolte da ogni bisogno dimostrativo in quella dimostrazione assoluta dell’essere cioè del Padre, del Figlio e dello Spirito, che è, per l’appunto, la Carità. Francesco non negò nulla di quelle pulsioni, di quei bisogni e di quelle necessità; sarebbe stato contro la sua fondamentale concretezza. Soltanto ci avvisa; e, in proprio, scelse o si fece scegliere dalla soluzione estrema; che proprio perché tale, si portò così vicino a quella dimostrazione assoluta dell’essere, da risolvere, come abbiam già detto, in un’ellisse-abbraccio le agonie relative al bisogno, alle pulsioni e alle necessità del conoscere e del sapere. Risolvere è l’esatto opposto di evitare. L’ellisse-abbraccio che Francesco operò di tali problemi, come di tutte le agonie relative al mondo che tenti la propria ricostruzione prescindendo dalla sua origine e dal suo fine, fu essenzialmente il “patimento”. Un “patimento”, che lo portò a esistere nella più estrema e liminare delle situazioni: uscire dal mondo per precipitarvi ancor di più e giungere al punto in cui, nel mondo “costruito”, s’evidenzi il valore divino e si riavvii la sua divina potenzialità di svolgimento. Lo scacco di tale operazione Francesco non lo mise neppur in conto. Quello che lo riguarda era l’operazione; il tentativo, la passione; e la certezza che Cristo è l’opposto esatto e totale del tradimento: e che, dunque, nella sua assoluta fedeltà possiamo inscrivere anche la nostra continua, povera infedeltà.

Così, per un’oltranza di quello “scandalo” che è legato ad ogni esperienza intesa a ripetere o a imitare l’Esperienza di Cristo, ci sentiamo indotti a dire che pochi santi hanno operato per il mondo, sia per il mondo creato sia per quello “costruito” o “sovracostruito”, come Francesco, che pure dal mondo “costruito” era uscito drasticamente ogni giorno. E altresì che pochi uomini sono stati come lui sociali ponendosi fuori da ogni proposta o prospettiva esclusivamente di società. In questi movimenti S. Francesco arrischiò addirittura di parer “barbaro”. In effetti al mondo “costruito” o “sovracostruito” dei suoi anni, l’ultimatività esistenziale e caritativa di Francesco dové certamente sembrar folle e demenziale; non in se stessa (ché come tale, non poteva essere minimamente attaccata essendo, in ogni caso, composta da atti totalmente reali), bensì in quanto indicava e rivelava, nient’altro che per essere quello che era, l’irreale demenza e l’irreale follia che tale mondo “costruito” andava operando sul mondo creato; sostituendo al suo sviluppo dentro la libertà reale del Padre, la deformazione maligna dentro la libertà irreale che derivava dalla dimenticanza del Padre.

Il significato reale e la reale potenza del Cantico delle creature, d’un testo infine il più lontano che si possa pensare dalla favola, sta proprio in questa affermazione, attraverso la “lauda”, dello sviluppo in atto perenne che vige dentro la creazione; sviluppo in cui, con la santa naturalezza di chi sa che santo è l’impeto connesso a tale sviluppo, entra anche la morte: che, di fatto, v’è chiamata «sora nostra corporale».

E tuttavia, tale affermazione, dopo l’evento del peccato, è resa possibile e può farsi realtà solo attraverso il corpo e il sangue di Cristo. «Perciò vi scongiuro, o fratelli, baciandovi i piedi e con tutto l’amore di cui sono capace, che prestiate, per quanto potete, tutto il rispetto e tutta l’adorazione al santissimo corpo e sangue del Signor nostro Gesù Cristo, nel quale tutte le cose che sono in cielo e in terra sono state pacificate e riconciliate a Dio onnipotente»; così dice il paragrafo secondo della Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati che è del 1222/23.

È probabile che il “favolismo” francescano sia un alibi, di lega comoda e parassitaria, escogitato per placare la chiamata in causa che l’esperienza di Francesco non ha mai cessato di replicare nei secoli; massime, nel nostro. Soprattutto perché l’indicazione, per quel che ci riguarda, della demenzialità e della follia scatenatasi dentro il mondo creato a causa del mondo “costruito” (così “costruito” da minacciare l’uno e l’altro di totale sparizione) viene spenta, non più col nominare folle e demente lui, Francesco, ma con l’attutire infinitamente la sua forza d’attribuzione e d’accusa, spostandola verso la cadenza moralistica e il “lieto fine”, propri a ogni “favola” e ad ogni leggenda. Al Francesco “barbaro” che balza fuori, irruente e dolcissimo, allarmante e pietosamente impietoso, innamorato e durissimo, rivoluzionario e fedele, dalle Fonti, da Jacopone, e dalle prime immagini figurali che di lui apparvero, abbiamo sostituito il Francesco che addolcisce, culla e che in tal modo vorremmo si disponesse a favorire la nostra insana e, pel vero, agitissima sonnolenza. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo e di dirlo: il matrimonio, che tale si nominò e fu, di Francesco con la Povertà, a furia di pauperismo ecclesiale da una parte, e di preminenze sociali dall’altra, noi l’abbiamo ridotto a un flirt. Ma Francesco con la povertà giacque veramente e giacque ogni giorno; con lei Francesco s’abbracciò; s’impastò; divenne, tramite Cristo e in Cristo, cosa sola.