Flannery O'Connor

«L'atto finale è la contemplazione»

Esce in America il diario delle preghiere di Flannery O'Connor scritto a ventun anni, quando si trovava nell'Iowa. La sorprendente profondità nel guardare dentro e rappresentare i propri desideri. Tutte parole indirizzate all'Assoluto, a un amante: Dio
John Martino

Bill Sessions è professore emerito di Inglese della Georgia State University di Atlanta. Studioso di letteratura europea ha alle spalle un numero ragguardevole di pubblicazioni, riconoscimenti accademici. Poeta e commediografo, è stato grande amico di Flannery O’Connor, la famosa scrittrice originaria della Georgia scomparsa nell’agosto 1964 a soli trentanove anni. Attualmente sta ultimando la biografia autorizzata della scrittrice Stalking Joy: The Life and Times of Flannery O’Connor, e ha curato l’edizione del suo diario di preghiera tenuto dalla scrittrice quando era studentessa all’Università dello Iowa, pubblicato in questi giorni negli Stati Uniti da Farrar, Strauss and Giroux. Questo diario di preghiera potrà cambiare il corso degli studi sulla O’Connor, mostrando come la sua opera scaturisca dal suo offrirsi a Dio. Bill parla della sua amicizia con Flannery e dell’originalità del suo diario, che lui stesso ha portato alla luce, un’opera che - pubblicata in tempi agitati come i nostri - suonerà forse come “la chiamata all’atto finale, che è la contemplazione”.

Nella raccolta di lettere della O’Connor Sola a presidiare la fortezza: lettere viene raccontata la sua amicizia con la scrittrice. Come e quando iniziò?
Flannery e io avevamo letto le recensioni l’uno dell’altra, pubblicate sul Georgia Bulletin, il giornale dell’Arcidiocesi di Atlanta. Era una pubblicazione di modesta diffusione, ma Flannery amava scrivere per loro perché ti omaggiavano del libro che recensivi! Ma avevamo anche degli amici comuni: Caroline Gordon, mentore di Flannery e Betty Hester, la anonima A. di Sola a presidiare la fortezza.

A quell’epoca si era già reso conto che questa donna aveva qualcosa di straordinario?
Ricordo che un giorno mentre eravamo seduti nella sua veranda, mi disse che valeva la pena vivere la vita per diventare santi. Ho capito subito che era una cosa a cui lei stava meditando profondamente; il suo volto si era infatti come illuminato. Ma pur con la sua levatura letteraria, quando morì io fui molto colpito dal fatto che Elizabeth Bishop, una grande poetessa, potesse scrivere: “Le sue storie resteranno con noi per sempre”.

Lei non immaginava che un giorno avrebbe scritto una biografia della O’Connor?
Assolutamente no. Io non facevo come Boswell (autore de La vita di Samuel Johnson) che annotava ogni parola da lei pronunciata. Ho cercato di rifiutarmi quando gli eredi mi hanno chiesto di scrivere la biografia. Non sono uno specialista di letteratura americana, e poi non mi piace scrivere dei miei amici. Ma il diario di preghiera è stato uno degli elementi che mi hanno convinto.

In cosa consiste questo diario?
Flannery aveva ventun anni quando si trasferì nello Iowa, là improvvisamente si trovò sola. Era cresciuta nell’ambiente del Sud, molto riservato e composto. Una volta disse che l’emozione più forte che avesse mai visto in famiglia era l’irritazione. Ciò non significa che non avesse mai dovuto affrontare idee diverse: a Milledgeville, in Georgia, aveva frequentato un liceo all’avanguardia che seguiva il metodo educativo di John Dewey. Ma lo Iowa costituì comunque un grosso cambiamento. Anche i veterani che tornavano dalla guerra erano una presenza di rilievo in quegli anni. Questo periodo di solitudine la portò a scrivere un diario di preghiera dal gennaio del 1946 al febbraio 1947.

Cosa contiene esattamente questo diario?
Il diario è essenzialmente una serie di preghiere, riflessioni molto intime, composte in uno stile molto personale. Strappò le prime cinque pagine, e così si parte subito in media res. In quelle pagine Flannery esprime la consacrazione di sé a una forza da cui si sentiva circondata. Sono testi di grande intensità, in una forma di preghiera inventata da lei. L’amante a cui si rivolge per tutto il diario è Dio: lei usa solo l’appellativo di “Padre”, associato a certe preghiere, e solo un paio di volte nomina esplicitamente Cristo o Gesù. «Io voglio sentire - scriveva -, io voglio amare». Indirizza queste preghiere all’Assoluto. Lei viveva nella speranza - forse un po’ eccentrica per i suoi tempi - di potersi consacrare totalmente a questo Assoluto, a questo amore.

Perché il diario è rimasto nell’ombra e come mai è venuto alla luce solo ora?
Da un lato può sembrare strano, data la notorietà della O’Connor, che questo documento sia rimasto sconosciuto finora; dall’altro appare straordinario che un editore laico pubblichi una raccolta di preghiere. Come si spiegano queste due cose? Posso capire il motivo per cui la famiglia pensava che si trattasse di un testo troppo personale: «Voglio donarmi a te…» le ragazze per bene non parlavano in quel modo. Io, quando mi sono imbattuto nel diario esaminando i suoi tanti manoscritti, avevo intuito subito che questo testo andava pubblicato, ma non sapevo bene come. Alla fine lo lessi pubblicamente in occasione di un convegno sulla O’Connor a Chicago. Ero concentrato sulla lettura, ma poi mi è stato detto che non si sentiva volare una mosca... Da quel momento quel diario ha incominciato a vivere una vita propria. La qualità dello stile si coglie subito. Ha tradotto il suo desiderio in un testo drammatico; era già sulle orme di Henry James: non raccontare ma rappresentare. Così ha rappresentato i suoi desideri, che erano talvolta infantili, ma erano spesso anche sorprendenti per l’intensità e la profondità di guardare dentro. Trattandosi di riflessioni del tutto private, erano quasi uno stream-of-consciousness, un flusso di coscienza: aveva già il tocco della grande artista, persino in un diario.

Quale impatto avrà il diario secondo lei?
Penso che si venderà, perché è breve! John Desmond, rinomato studioso della O’Connor, afferma che questo documento segnerà una svolta nella letteratura scientifica. Io non ne sono certo, perché ci sono tante correnti diverse tra gli studiosi della O’Connor. Molti di loro partono solo dalla teoria, a danno del testo in sé. Le teorie vanno bene, ma le opere d’arte - e quella della O’Connor in particolare - richiedono un atto finale, che è contemplazione. La teoria serve solo come punto di partenza.

Don Giussani direbbe: «Il metodo è determinato dall’oggetto».
Sì, l’oggetto determina il metodo, ma l’altro aspetto della cosa è che l’oggetto deve essere libero di sorprenderti.

Che cosa l’ha sorpresa in questo diario di preghiera?
È molto conciso, più nello stile di Pascal che in quello di Teresa di Lisieux, o addirittura più simile agli scritti dei Padri del deserto che a Pascal. Prendiamo questa frase, per esempio: «Nessuno può essere ateo se non conosce tutto. Solo Dio è un ateo. Il diavolo è il più grande credente, e ha i suoi motivi». Dio non ha bisogno di credere in se stesso, ma il diavolo non può esistere senza questa fede. Affermazioni come questa credo che sorprenderanno molta gente, e potranno essere d’aiuto per molti.

Ma a Flannery O’Connor è stato d’aiuto questo diario?
A un certo punto se lo è proprio chiesto, e in realtà è questo il motivo per cui si è fermata. Nella sua ultima annotazione dice a Dio che nonostante tutte queste preghiere non ha visto un grande cambiamento. «Oggi mi sono dimostrata una ghiottona di biscotti d’avena scozzesi e di pensieri erotici». E fu l’ultima cosa che scrisse su quelle pagine. Appena prima di questo epilogo aveva scritto: «Mi piacerebbe essere una mistica, e immediatamente». Ma non accadde immediatamente. Quando suo padre era morto lei aveva scritto in un diario precedente: «Ci siamo imbattuti nella realtà della morte e la consapevolezza della potenza di Dio ha spezzato la nostra noncuranza come una pallottola nel fianco». Ma quello era un momento drammatico, come l’epilogo di molti suoi racconti. Qui, in questo diario, e nella sua stessa vita ha dovuto trovare risposta ai suoi desideri nel regno della banalità. Flannery pregava soprattutto per due cose: poter giungere vicino a Dio e diventare una scrittrice, e penso che le siano state concesse entrambe. Scriveva anche di non desiderare la sofferenza, ma che l’avrebbe accettata. Avrebbe compreso più tardi che i suoi desideri avrebbero trovato realizzazione solo nell’attesa. Paradossalmente, gli anni letterariamente più fecondi giunsero dopo che fu colpita dalla stessa malattia che si era portata via suo padre, il lupus. Non fu solamente il primo, tremendo attacco del male, che nell’arco di un viaggio in treno verso il sud aveva trasformato il suo aspetto di ragazza, come mi raccontò suo zio. Fu anche la sofferenza quotidiana che la tormentò da allora in poi.

Il metodo della preghiera è aperto anche alle sorprese?
Certo. È importante anche ricordare che, quando interruppe il suo diario, Flannery aveva incominciato a scrivere La saggezza nel sangue. Più tardi scrisse a sua madre che questo romanzo, anche se la madre non avrebbe capito, era un passo importante nel suo sviluppo spirituale. C’è un filo diretto che unisce il diario a La saggezza nel sangue. In un certo senso, si vede come la sua spiritualità cresca, dopo il diario, attraverso i racconti stessi. Fino a raggiungere il punto massimo nel trittico finale: Rivelazione, Il giorno del giudizio e La schiena di Parker.

Vede la stessa connessione nelle sue lettere?
Sì, anche se nelle sue lettere era un po’ come san Paolo: farsi tutto a tutti per salvare qualcuno. I suoi racconti sono anche pensati per un pubblico, e sono più indiretti, come le parabole evangeliche. Le parabole sono dure, come lo sono i suoi racconti. Lei meditava sui suoi racconti, e questi possono diventare oggetto di meditazione per i lettori. La differenza nel diario di preghiera è che lì stava scrivendo solo per se stessa e per Dio. Questo dovrebbe aiutare a capire i racconti, e viceversa.

Il titolo che ha scelto per la sua biografia della O’Connor è Fare la posta alla gioia. Perché?
È una citazione da una lettera a Betty Hester, che all’epoca (1 gennaio 1956; cf. Sola a presidiare la fortezza: lettere, Minimum fax, Roma 2012), pensava che Flannery fosse rinchiusa nel suo guscio, e non vivesse in un mondo reale. Flannery desiderava darle un’immagine ben diversa: «Mi ci vedi far la posta alla gioia digrignando i denti, e armata da capo a piedi per giunta, visto che si tratta di un’impresa assai rischiosa». Flannery citava anche un passo delle catechesi di Cirillo di Gerusalemme: «Il drago è sul ciglio della strada e scruta i passanti. Attenti che non vi divori! Siete diretti al Padre delle anime, ma prima dovete passare davanti al drago».