Jackie Kennedy con il cognato Bob al funerale del marito. <br>25 novembre 1963 (©Elliot Erwitt/Magnum Photos).

Ad occhi aperti, dietro l'obiettivo

Mario Calabresi, direttore de "la Stampa", ha presentato il suo nuovo libro sui grandi fotografi della storia, “A occhi aperti”. Con lui, l'attore Giacomo Poretti e Giovanna Calvenzi, photo editor e moglie di uno dei fotografi raccontati
Francesca Mortaro

Nella sala conferenze di Palazzo Reale a Milano si spengono le luci. Il pubblico rimane in attesa del video preparato dall’editore Contrasto. Qualche problema tecnico allunga l’attesa e subito Giacomo Poretti ci mette lo zampino: «Ma il tecnico è afghano?». La gente ride. «Sapete, in fondo mi hanno invitato per intrattenervi durante questi momenti di black out». Si scherza, ma in fondo la domanda è venuta a tutti: cosa ci fa un comico alla presentazione dell’ultimo libro di Mario Calabresi A occhi aperti? Si risponde da solo prima che qualcuno glielo chieda esplicitamente: «In casa ho tante macchine fotografiche, ma ho una tara fisica che mi impedirebbe di fare il fotografo».

Oltre la battuta, un motivo c’è: «I libri di Mario mi hanno sempre insegnato molto e oggi sono qui, dopo aver letto il libro, per porgli alcune domande». La scelta fatta da Calabresi di scrivere un libro che parlasse di fotografie ha un po’ spiazzato tutti, «ma alla fine ci ha fregati», ammette Giacomino, «perché ha continuato a fare il suo mestiere: raccontare storie. Non è così Mario?».

«Sicuramente», risponde Calabresi sorridendo: «Questo libro è nato dalla mia curiosità giornalistica e personale. Volevo sapere cosa c’era dietro alle foto che avevo sempre visto fin da bambino e cos’era successo un attimo prima e un attimo dopo quelle istantanee. Ma, alla fine, ho scoperto molto di più: le storie dei fotografi».

Come quella di Josef Koudelka, l’“anonimo” fotografo ceco, che documentò l’invasione sovietica a Praga e per questo fu costretto a fuggire dal suo Paese senza tornarvi per molti anni. Oppure quella di Gabriele Basilico che a Beirut, dopo la fine della guerra civile libanese, c’era andato per fotografare la distruzione, ma senza sapere da dove cominciare. Fino a quando un amico scrittore lo portò in cima ad un palazzo e gli fece notare, più in là delle macerie, il fumo di un caminetto. Ecco la chiave: partire dalla vita. Fare il fotografo non significa solamente catturare un istante. «È questione di empatia con le cose, di attenzione, di sensibilità», continua Calabresi. «Questi uomini non si sono trovati nel posto giusto al momento giusto. Sono stati capaci di guardare, di capire e di cogliere la storia».

A differenza di Giacomo Poretti si capisce benissimo perché, seduta tra i relatori dell’incontro, c’è anche Giovanna Calvenzi. «Giornalista, photo editor e moglie del fotografo Gabriele Basilico», sottolinea Luca Fiore, giornalista di Tracce, che la introduce: «Giovanna di lavoro fa il “giudice” delle foto, cioè le sceglie. Cosa l’ha colpita di questo libro?». «Le storie, come ha detto anche Giacomo», risponde la Calvenzi: «Anche se parla di foto, questo libro è giornalistico. Dei personaggi che Mario ha intervistato, soltanto due si fermano a parlare di aspetti tecnici del mestiere, Gabriele Basilico e Paolo Pellegrin. Ma se posso permettermi vorrei fare una sottolineatura azzardata: Calabresi finge di fare il cronista, nel senso nobile del termine, ma la poesia gli scappa. Per ogni intervistato c’è sempre almeno una frase poetica che lo caratterizza, lo descrive. A mio parere è la chiave di lettura dell’amore che lega Calabresi incolto di fotografia, alla passione per la fotografia».

«In verità ho scritto questo libro per tornare a fare il cronista», ribatte subito Calabresi: «Mi sono documentato leggendo libri di critica. Poi ho capito che questo approccio non era il mio. Io ero spinto dalla curiosità e dal fatto che facendo il direttore non posso più fare quello che mi piace: raccontare storie. È per fuggire dalla mia condizione di direttore che scrivo libri». Per lui fare il cronista è una vacanza, incontrare le persone una gioia, e raccontare un privilegio. Ma, ad un certo punto della vita, dopo tre libri si accorge che deve smetterla di parlare: «Ho sentito bisogno di ascoltare», spiega: «Di lasciare che gli altri mi parlassero, di far da tramite. E così ho fatto con questo libro: ho lasciato che parlassero grandi uomini e gli attimi di Storia che hanno saputo immortalare».

«Sì, ma in queste pagine si parla anche dell’educazione ad uno sguardo», lo incalza Poretti. Non è possibile che la fotografia sia solo un mettere l’apparecchio davanti alle cose mentre accadono e scattare. In un’epoca in cui tutti possono fare un click e pubblicarlo in tempo reale sul web, Calabresi ha voluto scrivere un una sorta di “manifesto dei fotografi”.
«È vero quello che dice John Szarkowski, curatore fotografico del Moma di New York», conclude Fiore: «L’uomo ha bisogno di tutta la vita per imparare a guardare». Proprio come ci testimonia la vita di questi fotografi.