Charlie Chaplin in una scena de <em>Il Monello</em>.

Chaplin, che chiedeva scusa all'albero

Il 2 febbraio 1914, cento anni fa, esordiva nella Londra del Variety. Da allora ha inizio un percorso: "Il monello", "Tempi moderni", fino a "Monsieur Verdoux". A distinguerlo grande profondità, e quella comicità così capace di svelare l'uomo
Luca Marcora

«Quella stessa strada di nessun luogo, sempre ripresa di film in film dall'omino col bastoncino, […] oggi sappiamo dove finisce. Il termine della strada è il sentiero di un cortile di prigione nella nebbia mattutina in cui s'intravede la sagoma ridicola della ghigliottina…». Così scrive André Bazin a proposito di Monsieur Verdoux, pellicola realizzata nel 1947 da Charles Spencer Chaplin (1889-1977). Per ricordarne l'esordio cinematografico, il 2 febbraio di cento anni fa, vogliamo partire dalla fine. Non dalla fine della sua carriera, ma dalla fine simbolica del suo personaggio più famoso, quel simpatico vagabondo che i francesi hanno affettuosamente ribattezzato Charlot. Perché è impossibile accostare il genio di Chaplin senza tener sempre presente, in sottofondo, che la sua comicità, «come ogni grande comicità, è sempre a contatto di gomito con la tragedia, poiché il debole, che è vincitore sul piano immaginario, è invece sempre sconfitto sul piano della realtà vissuta», come scrive il suo biografo David Robinson.

Nato a Londra e cresciuto nel mondo del varietà, Chaplin esordisce nel cinema nel 1914, entrando a far parte della Keystone, la compagnia statunitense di Mack Sennett specializzata in comiche brevi e fulminee. La sua prima apparizione avviene con Per guadagnarsi la vita (Making a Living) di Henry Lehrman, in un ruolo che non ha ancora nulla dei tratti caratteristici del personaggio che lo renderà famoso in tutto il mondo. Baffetti, bombetta e bastone, uniti alla rara capacità di mettere a soqquadro la realtà, compaiono in forma definitiva nei due film successivi, Charlot si distingue (Kid Auto Races at Venice, 1914) e La strana storia di Mabel (Mabel’s Strange Predicament, 1914), sempre di Lehrman. La casa di produzione non gli concede però la libertà necessaria per esprimersi come vorrebbe: «La comica Keystone - spiega Robinson - era tutta esteriore, aneddoto e situazioni venivano spiegati grazie alla pantomima e alla gestualità; quella di Chaplin veniva dall'interno. […] E il comico nasceva dal rapporto fra questo mondo interiore e le cose che avvenivano intorno a lui. Il punto cruciale non era la gag in sé e per sé, ma il modo in cui Chaplin ne restava colpito o influenzato: se alla Keystone bastava urtare contro il tronco di un albero per far ridere, Chaplin dopo aver sbattuto contro l’albero si levava il cappello e chiedeva scusa al tronco».

Con il passaggio alla Essanay nel 1915, quindi alla Mutual nel 1916, ottiene il controllo completo dei suoi film e realizza prodotti più curati, dove i personaggi non sono più solo semplici ingranaggi del meccanismo comico. Con Charlot vagabondo (The Tramp, 1915), Charlot usuraio (The Pawnshop, 1916), La strada della paura (Easy Street, 1917) o Charlot emigrante (The Immigrant, 1917), Chaplin dimostra di possedere saldamente il linguaggio cinematografico, mentre la sua comicità diventa più profonda, punto privilegiato di osservazione della miseria presente in una società che invece vorrebbe eliminarla. Acquista anche un retrogusto amaro: come nel Vagabondo, quando Charlot si innamora della figlia di un ricco contadino e la salva dalle mani dei banditi, ma lei gli viene portata via da un rivale. Comincia ad emergere la solitudine e l’incompiutezza del personaggio, costretto a risolvere da solo i problemi per trovarsi alla fine di nuovo abbandonato come all’inizio.

Nel 1918 Chaplin passa alla First National, per la quale realizza alcune tra le sue pellicole più famose: in Vita da cani (A Dog’s Life, 1918), Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), Il Monello (The Kid, 1921) e Il pellegrino (The Pilgrim, 1923) l’osservazione della realtà, della miseria che colpiva larga parte della popolazione americana, assume i toni di un’aperta critica sociale: «Il discorso poetico di Chaplin è, insomma, non più limitato ad una blanda satira di costumi o a un ammiccante umorismo, sia pure di buona lega - sostiene Gianni Rondolino -; esso affonda le radici in un giudizio sulla società che, pur tra incertezze e ingenuità, può essere esplicitamente considerato politico o ideologico». Charlot diventa così il simbolo della contestazione al potere. In Charlot soldato, ambientato durante la Grande Guerra, cattura da solo 13 soldati nemici («li ho circondati!», dice ai commilitoni), e arriva addirittura a fare prigioniero il Kaiser in persona; si tratta solo di un sogno, ma i deboli si riconoscono in questo omino piccolo eppure indomito. È l’inizio di una frattura con gli Stati Uniti che culminerà nell’accusa di filo-comunismo nel 1949.

Nel 1919, fonda la United Artists con Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David Wark Griffith. Riesce però a realizzare il primo film con la sua nuova compagnia solo nel 1923, dopo aver adempiuto gli obblighi contrattuali che ancora lo legavano alla First National: in La donna di Parigi (A Woman of Paris) Chaplin non compare in veste di attore, ma la storia drammatica di due innamorati che si separano mette in luce la sua ormai raggiunta maturità come regista. È quindi il momento dei grandi capolavori muti: La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925), Il circo (The Circus, 1928) e Luci della città (City Lights, 1931). Opere di ampio respiro, mostrano l’abilità narrativa del suo autore, la sua maestria gestuale e quella mimica perfetta che ha reso celebri scene come la danza dei panini o la cena a base di scarpe bollite in La febbre dell’oro. La solitudine di Charlot assume connotati ancora più patetici, quasi rassegnandosi all’impossibilità di ottenere nell’immediato un riscatto per sé. Fin dall’inizio de La febbre dell’oro è evidente che la bella Georgia non avrebbe mai partecipato alla cena di Capodanno che il povero Charlot ha amorevolmente preparato nella capanna; oppure che la povera ragazza cieca di Luci della città, della quale il timido vagabondo si innamora tanto da procurarle i soldi per l’operazione agli occhi, lo avrebbe deriso quando, vedendolo, se lo fosse trovato davanti senza sapere chi fosse realmente.

Escluso e disprezzato, Charlot diventa sempre più una figura scomoda, da eliminare per garantire l’ordine sociale, come accade nei due film successivi. In Tempi moderni (Modern Times, 1936) cerca il suo posto negli ingranaggi di una società sempre più meccanizzata, ma a causa del disordine che porta con la sua sola presenza viene considerato un sovvertitore dell’ordine e quindi un nemico da rinchiudere in cella. Ne Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940) è un innocuo barbiere ebreo che ha perso la memoria durante la Grande Guerra e si ritrova nella Tomania governata dal dittatore Adenoid Hynkel (caricatura di Hitler, sempre interpretata da Chaplin) che punta ad annientare tutti gli ebrei per instaurare il dominio della razza ariana. Finito prigioniero, riesce a scappare e, grazie alla sua somiglianza con il dittatore, a sostituirsi a lui per pronunciare il discorso finale in cui invoca un tempo nuovo, di pace e speranza per ogni uomo.

È questa l’ultima apparizione della figura di Charlot così come l’abbiamo conosciuto per quasi quarant’anni. Ma, come suggerisce Bazin, Chaplin sembra voler aggiungere un ultimo tassello quando, nel 1947, realizza il già citato Monsieur Verdoux. Questa volta interpreta il ruolo di un impiegato di banca licenziato che, per salvare la famiglia dalla povertà, sposa ricche vedove e quindi le uccide per ottenerne l’eredità. Nessun legame con il cinema del passato, nessun rimando esplicito all’omino col bastone: «Charlot è per essenza l’inadattato sociale, Verdoux un iperadattato». E se allora Verdoux non fosse altri che Charlot adattatosi alle regole di quella società che in passato aveva sempre avversato? Una società che ha vinto il nazismo, ma che ha perso il senso della vita e dei rapporti umani, che costringe l’uomo in un egoismo ipocrita per cui l’interesse particolare giustifica qualsiasi azione: «Guerre, conflitti, tutti affari. Un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza», dice Verdoux poco prima di essere condannato.

Si capiscono allora le parole di Bazin quando afferma che «Monsieur Verdoux getta sull’universo chapliniano una luce nuova, lo ordina e lo carica di senso. […] Sicura della propria coscienza e della propria giustizia, credendo di condannare Barbablù mentre prima s’era accontentata di gettare in carcere l’ingenuo scioperante di Tempi moderni, ecco che [la società] ha ucciso ora Charlot». È la fine del mito, non c’è più spazio per la risata. Ha vinto la tragedia: quel mondo di cui anni prima si poteva ancora ridere ora ha finalmente ottenuto la sua vendetta.

Resta a Chaplin il tempo per tracciare il bilancio di una vita straordinaria con Luci della ribalta (Limelight, 1952), a tutti gli effetti il suo testamento artistico (i due film successivi, Un re a New York, A King in New York, 1957 e La contessa di Hong Kong, A Countess from Hong Kong, 1967 sono opere minori e stanche, ancorate ad un linguaggio cinematografico ormai già vecchio all’epoca della loro uscita). Il regista sembra ripercorrere il proprio vissuto nella storia dell’anziano clown Calvero, ormai dimenticato, che si innamora di una ballerina più giovane di lui, la salva dal suicidio e le ridona la gioia di vivere. Per poi farsi da parte, ma questa volta per sua scelta.

È la fine di un mondo vista da chi sa che è giunto il momento di uscire di scena. A prevalere, questa volta, è l’elemento patetico su quello comico, anche se non mancano pagine memorabili come l’esibizione con Buster Keaton, dove i due vecchi colleghi fanno a gara a rubarsi la scena in un crescendo di caos degno delle migliori comiche del muto. È l’addio toccante di un artista che per una vita ci ha commossi facendoci ridere di quel mistero che è l’irriducibilità e l’incompiutezza dell’uomo. Come direbbe Calvero: «Il cuore e la mente… che grande enigma!».