La fine di un mondo

Il 28 giugno del 1914 l'attentato di Sarajevo faceva esplodere il primo dei due conflitti mondiali. Da Tracce di giugno, l'inizio di un viaggio a puntate dalla "Belle époque" alle trincee
Pigi Colognesi

Cos’ha significato, nello sviluppo della civiltà occidentale ed europea in particolare, l’evento che da più parti si sta celebrando e discutendo a cent’anni dal suo avvio, e cioè la Prima Guerra mondiale, la Grande Guerra? Le biblioteche - ed ora anche la Rete - sono zeppe di ricostruzioni storiche, politiche, diplomatiche, militari, nonché di analisi sociologiche, economiche, culturali. Non intendo, ovviamente, aggiungere il mio filo d’erba secca a questo già enorme pagliaio; vorrei solo offrire alcune suggestioni.

Nei vecchi manuali di storia su cui abbiamo studiato, il primo paragrafo del capitolo dedicato a questi fatti era invariabilmente intitolato: «Le cause della guerra». Ed è vero che se ne possono ricostruire gli antefatti in termini di scontro tra potenze (in particolare Germania e Francia), di dissidi per il controllo delle colonie, di necessità di dar sfogo ad un tumultuoso sviluppo industriale, di legittime esigenze nazionali e molto altro ancora. La storiografia più avveduta, però, ha messo in evidenza che tutte queste “cause” non danno adeguata ragione di quello che sarebbe stato il loro prodotto. Basti pensare, per restare sul primo dei fattori appena elencati - il conflitto franco-tedesco -, che gli attori in campo pensavano seriamente che esso si sarebbe potuto risolvere in poche settimane come già era avvenuto per precedenti scontri tra le due nazioni; nessuno aveva previsto che il conflitto sarebbe stato tanto lungo e cruento. Anche gli interventisti italiani favoleggiavano di qualche decina di cadaveri da poter buttare sul tavolo delle trattative per il riassetto degli equilibri europei: non immaginavano che i caduti del nostro Paese sarebbero stati più di seicentocinquantamila.
Questa abissale differenza tra le aspettative e la realtà dei fatti induce a ritenere che la Grande Guerra è meglio descritta dal termine “evento”, cioè un fatto che ha sì le sue ricostruibili “cause”, ma che ha soprattutto il volto di una sorpresa, qualcosa che scoppia tra le mani inaspettatamente.

Facciamo, allora, un passo indietro per cogliere, a grandissime linee, cos’era l’Europa che sarebbe sprofondata nell’abisso della guerra. Significativamente gli anni che l’hanno preceduta sono stati chiamati Belle époque. Un’epoca, cioè, dominata dalla percezione di un progresso inarrestabile, di uno sviluppo che non si sarebbe mai indebolito, di una dominazione sulla natura che, attraverso la scienza e la tecnica, si sarebbe allargata indefinitamente. Sono anni di indiscusso ottimismo, almeno per quanto riguarda le classi agiate - della situazione dei popoli parleremo nella prossima puntata -, quelle che dominavano la scena politica e a cui si deve in gran parte la decisione del conflitto.

L’ottimismo stile Belle époque aveva il suo fondamento nella fiducia incondizionata nelle possibilità della scienza; essa non solo andava scoprendo le leggi fondamentali della natura, mettendo a disposizione del benessere dell’uomo i suoi risultati, ma penetrava col suo sguardo indagatore anche nei territori propriamente umani: i rapporti collettivi (sociologia), l’educazione (pedagogia), l’intimità personale (psicologia). Persino la creatività, come dimostra una celebre frase di Hippolyte Taine, uno dei maestri della cultura progressista: «Si può considerare l’uomo come un animale di specie superiore che produce filosofie e poemi pressappoco come le api fanno i loro alveari». Tutto chiaro, dunque, e tutto inesorabilmente proiettato verso un futuro radioso.

Ma al di sotto delle scintillanti paillettes del bel mondo delle capitali europee si erano aperte profonde voragini di malessere. Qualche esempio.

Nella Germania del vorticoso sviluppo industriale e del portentoso riarmo, Thomas Mann aveva già narrato la crisi della ricca famiglia dei Buddenbrook e poi, giusto nel 1912, aveva impietosamente descritto, in La morte a Venezia, la fine di un mondo intellettuale. Per capire di fronte a quale abisso di angoscia ci troviamo basta rivedere la scena finale del film che ne ha tratto Luchino Visconti: sulle note del mesto Adagetto della Quinta sinfonia di Mahler, muore il protagonista e con lui una società che si credeva indistruttibile.

Nella Vienna dei perpetui valzer, Sigmund Freud squarciava il velo sull’oscuro mondo dell’inconscio, aprendo orizzonti ben più vasti ed inquietanti che non quelli cui la scienza positivista sembrava ridurre ogni aspetto umano. Dal canto loro i musicisti della “scuola di Vienna” superavano le barriere della tonalità per intraprendere le vie di una musica del tutto nuova, per molti versi sgradevolmente vicina al grido eppure in qualche modo emblematica dello scricchiolare delle impalcature tradizionali. A Parigi i pittori dell’Avanguardia sconvolgevano ogni norma classica e buttavano in faccia agli allibiti visitatori visi e corpi che non parevano più umani, ma mostruosi accostamenti di brandelli.

Insomma, i segnali di qualcosa che stava crollando c’erano tutti, ma non molti erano disposti ad accorgersene. Tra questi ultimi ci furono coloro che pensavano alla guerra col malsano gusto di chi si aspetta un rinnovamento dalla distruzione. Come i futuristi che nel loro Manifesto del 1912 scrivevano: «Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore».
Altre voci denunciavano, invece, la fragilità del “mondo moderno” e del progressismo ingenuo nella speranza di un ravvedimento. Una di queste è quella di Charles Péguy, che scriveva nel 1913: «L’idea logica è che ogni volta costituisce un progresso sulla volta precedente; è come una scalinata che si sale; tale è la teoria del progresso. Essa è al centro del mondo moderno, della filosofia e della politica e della pedagogia del mondo moderno. La natura, la realtà, l’organico si governa anche con altre leggi. C’è una deperdizione, una perdita perpetua, un’usura. In una parola c’è l’invecchiamento». Non volendosene accorgere, il mondo moderno sta producendo - dice ancora Péguy in un testo del 1907 - solo inaridimento: «Il mondo moderno avvilisce. È la sua specialità. Avvilisce la città; avvilisce l’uomo. Avvilisce l’amore; avvilisce la donna. Avvilisce la razza; avvilisce il bambino. Avvilisce la nazione; avvilisce la famiglia. Avvilisce anche ciò che al mondo c’è di più difficile da avvilire, perché è qualcosa che ha in sé una sorta particolare di dignità, come una incapacità singolare di essere avvilita: avvilisce la morte».

Eccolo pronunciato il nome della sconvolgente sorpresa prodotta da quella che papa Benedetto XV ha definito una «inutile strage»: la morte. Morte inattesa di una civiltà, morte di equilibri che si pensava di risistemare con facilità, morte di imperi sovranazionali che puntavano ad una pacifica convivenza di nazioni diverse (si ricordi il famoso Requiem per un impero defunto, di François Fejtö), morte, soprattutto, di un’intera generazione di giovani. «La morte - ha scritto recentemente lo storico Emilio Gentile -, che la fede del progresso aveva preteso relegare fuori dall’orizzonte della modernità trionfante, aveva riconquistato il suo potere sulla vita quotidiana di milioni di uomini, falciandoli con una ferocia mai sperimentata prima nella lotta fra esseri umani».

Tra i soldati italiani partiti per il fronte ce n’era uno - fortunatamente sopravvissuto - nato e vissuto fino ad allora ad Alessandria d’Egitto. Nelle sfibranti ore di trincea aveva trovato il tempo di appuntare su foglietti sparsi o pezzi di giornale dei versi completamente nuovi rispetto all’enfasi dannunziana e all’intimismo crepuscolare: Giuseppe Ungaretti. Quei versi, raccolti e pubblicati in poche copie da un amico tenente, costituiranno il primo passo di una lunga avventura poetica. Si intitolano Il porto sepolto. «Non erano destinati a nessun pubblico», scriverà lo stesso autore: «Avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com’è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione». E aggiunge: «Ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte. Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione». L’esatto opposto dell’ottimismo spavaldo dell’anteguerra, un salto in profondità che la elementarità stessa del verso indica in modo indimenticabile. Come nel celeberrimo Soldati: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie».