Aldo Nove.

Tutta la luce del mondo

L'ultimo libro dello scrittore e poeta lombardo è una biografia romanzata di san Francesco, vista attraverso gli occhi del nipote del Santo di Assisi. Ci racconta cosa c'entra con lui la vita di quest'uomo «costantemente fallito e vincitore»
Davide Perillo

Leggere, ha letto. Tanto. Cita i mistici duecenteschi e le Upanishad sanscrite, san Giovanni della Croce e i Cccp di Lindo Ferretti; ti racconta della laurea in Filosofia morale («con Luciano Parinetto», precisa) e degli studi di Storia del cristianesimo. Ma lo fa senza saccenza, Aldo Nove. Più per farti capire che certi temi li sente davvero suoi, che ci teneva a prepararsi bene per affrontarli. Come ci tiene a sapere di CL, di «un mondo che conosco poco» e che aveva appena sfiorato da ragazzo a Varese, dove «ero anche andato a un raggio, ma avevo trovato tutti felici. Non mi piacevano. Io all’epoca avevo troppi problemi miei. Dovevo fare un altro percorso». Lo sta facendo. Un percorso che, a 47 anni, lo ha portato dai primi libri “cannibali” di Woobinda, pieni di racconti splatter con molta violenza e una discreta dose di furbizia, al mondo dei precari (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese), alla musica (De André, Mia Martini), alla poesia. Fino a quest’ultimo libro, anticipato in qualche modo da un poema in versi dedicato alla Madonna (Maria, 2007), ma sorprendente comunque. Si chiama Tutta la luce del mondo, lo pubblica Bompiani, è una biografia romanzata di san Francesco. E colpisce.
Anzitutto, per come racconta il santo. Un uomo, non un santino: uno che sceglie Cristo e la povertà per abbracciare e conquistare tutto. Poi, perché lo guarda con gli occhi di un bambino, quel Piccardo - nipote di Francesco - che vuole incontrare e conoscere lo zio di cui mezza Assisi è innamorata e che per l’altra metà è soltanto pazzo. Il risultato è un libro che legge in modo acuto parecchi aspetti del mondo medievale (la religiosità, il senso della realtà come «segno», la vita come un libro da leggere per scoprire di continuo Altro), che edulcora poco (anche se scarseggia un po’ di drammaticità), non fa sociologia né pauperismo. E fa capire qualcosa di più della «perfetta letizia» regalata dalla fede.

A Francesco come ci sei arrivato?
Guarda, all’origine c’è un aspetto letterario. A 17 anni mi ero innamorato dei Fioretti. Ci avevo trovato un linguaggio bellissimo: fresco, ingenuo. È tornato a galla in tanti modi, nel tempo. Ma la cosa che mi ha fatto decidere a fare il libro è stata la scoperta de L’infinitamente piccolo, di Christian Bobin. Grande potenza poetica. Da lì è partita la ricerca. Ho letto tanto: un centinaio di libri, almeno. Ho scoperto la Vita di Francesco, in cui Paul Sabatier riprende gli odori, gli sguardi, l’umano che poteva esserci nell’Assisi del tempo. Mi sono appassionato. All’inizio ho pensato anche di scrivere in prima persona.

Perché?
Lo sguardo soggettivo mi viene più facile, non sento molto mio il piano dell’oggettività. Ma con un personaggio così sentivo di poterlo fare solo se fossi davvero riuscito ad annichilirmi, in qualche modo. Come i mistici: «Io sparisco e do voce a Francesco...». No. Non ero sincero. Venivo fuori io. Poi, nella mia follia di ricerche ho trovato uno studio sull’ubicazione della casa di suo padre, Pietro Bernardone. C’erano riferimenti a questo figlio del fratello, che si era impegnato perché non venisse venduta la cappella dove Francesco andava a pregare da piccolo. Era un terziario, ma faceva il mercante. Ho capito che forse avevo trovato una possibilità di sviluppo narrativo: un ragazzino che non rompe con la famiglia, come Francesco, ma comunque aderisce a lui, ne è attratto, vuole capirlo. Lì è partito il gioco dell'immedesimazione. In quel ragazzo potevo identificarmi.

E di Francesco, che cosa ti ha affascinato?
Potrebbe essere considerato il più grande poeta italiano, ma non era un poeta. O meglio, lo era a un livello tale che la poesia era altro da quella dei grandi, del canone: che so, Pascoli o Carducci... Ha scritto lettere bellissime, potenti: «Antonio, vescovo mio, salute. Sono contento che studi le scritture e le insegni agli altri. Non dimenticarti però di vivere l'insegnamento del Santo Vangelo. Francesco». Era inviata ad Antonio da Padova. Altro che tweet... Ma mi colpisce il fatto che non voleva fare elaborazione culturale: quella è arrivata dopo, con i teologi. Lui non leggeva i libri perché continuava a leggere il libro del mondo. E il libro era uno.

Che cosa pensi di questo desiderio di qualcosa di totale, che in Francesco è decisivo?

A me piace molto il fatto che sia una radicalità inclusiva e non esclusiva. Non si contrappone a nessuno. Abbraccia due estremi. Da una parte gli assoluti esclusi. E lo fa con un atto di volontà: lui lo scrive pure, nel testamento, che i lebbrosi gli facevano schifo. C’è un percorso di scelta, in questo fatto di baciare gli ultimissimi. Per l’uomo medievale il malato era ancora responsabile della malattia, colpevole. La compassione, come la intendiamo adesso, era questione molto controversa. Il lebbroso era fuori dalla società. Dall’altra parte, non si è mai contrapposto al potere. Identificandosi con l’ultimo, era al servizio di tutti. Anche della Chiesa.

È una cosa che desideri per te? La possibilità di incontrare qualcosa che ti faccia dire: scegliendo questo, seguendo questo, posso abbracciare tutto e non rinunciare a niente.
Mi fai rispondere piano a questa domanda...

Il tempo c’è.
In fondo è Eckhart, il teologo duecentesco. È quel continuo “togliere l'io”. Ma è un filo che arriva fino al Papa attuale: quando si chiede «chi sono io per giudicare l'altro?», in un certo senso toglie l'io per fare un grande atto di sottomissione a qualcosa d'altro. C'è un distico tra i più belli della letteratura occidentale che dice: «Io non smetterò con la forza del mio puro amore di provare a convincere Dio a portarmi oltre di Lui». Mi pare grandioso.

E ti ci ritrovi?
Mi affascina. Come altri temi. Per esempio, mi dispiace di non aver trattato nel libro l'episodio dell'incontro con il Sultano, la bellezza di quel confronto. E non è una leggenda che il Sultano non volesse lasciarlo andare via: ci sono delle fonti arabe a confermarlo. È bellissimo, in un momento in cui c'era un odio pazzesco. Ma da dove viene? Francesco, il costantemente fallito Francesco, è fallito e vincitore. È vertiginoso, radicale appunto.

Cosa ti permette di possedere tutto abbandonandolo, staccandoti?
La presenza dello spirito. Nel senso pieno del termine. E non è una cosa definibile una volta per tutte. Nel concreto si vede emergere ogni volta, a seconda delle vicende. Ma c’è un dato di cui tenere conto: l'idea di un'imitazione di Cristo come la conosciamo noi in qualche modo nasce con Francesco. E con lui spunta la possibilità di una vita così.

Una religiosità che non è astratta e vaga, ma in cui Gesù è la chiave di tutto...
Sicuramente. L’approccio a Gesù per Francesco è stato immediato, di cuore. Per questo sento grande rispetto nel trattarne. Francesco non fa nessuna mediazione culturale: quella toccherà a Bonaventura e ai teologi francescani, dopo. Ma lui non parlava con i sapienti: parlava con il lupo, gli uccelli... Ma parlava dell’assolutamente “altro” incarnato nell’esperienza umana. Era tutto in rapporto a Cristo. Un rapporto reale, immediato, appunto.

E il legame con Chiara? Colpisce molto come lo descrivi. Non usi mai la parola “verginità”, ma l’idea c’è, piena: un distacco che permette una unità impensabile. «Era come se tutto il mondo in quel momento grazie a loro fosse un bacio e allora non c’era bisogno che si baciassero». Oppure: «Per questo si sarebbero divisi: perché non lo sarebbero stati mai».
Su quel rapporto si è scritto di tutto. C’è molto riduzionismo scettico, anche molto triste. Ho letto robe da psicanalisi... Ma il fatto è che lei, svuotandosi di sé e riempiendosi dello spirito di Francesco, e quindi di Cristo, ha aderito al suo messaggio. Completamente.

E ha conquistato tutto: di lei dici che «piangeva di aver scelto tutto, senza scegliere». Non è una percezione comune che un rapporto così sia un possesso pieno. Di solito la verginità si immagina come di un “di meno”.
Si dice anche “consumare il rapporto”, no? Noi veniamo fuori da una cultura di questo tipo... L’ho presa in modo frontale. Mi sembrava l’unica cosa che mi permettesse di far emergere forte questa differenza. Mi ci sono calato dentro completamente.

Non sembra un’idea tirata fuori solo dallo studio delle fonti.

Non sono uno storico, sono uno scrittore. Sì, in qualche modo c’è dentro anche una radice mia. Ho avuto un rapporto molto bello con mia nonna, ex contadina, un po’ bigotta, che viveva una spiritualità da contadina dell’Ottocento. È morta nell’86, a novanta e passa anni. C’è stato un lungo periodo, da bambino e poi ragazzo, in cui andavo a messa tutti i giorni. Poi con l’adolescenza viene fuori l’ego... Ma quando ho scritto Maria è perché avevo bisogno di recuperare un certo tipo di spiritualità che sentivo.

Perché?
Non so bene. Sono io. E poi la funzione dello scrittore, se possibile, è di lanciare segni che distraggano da una normalità che rischia di essere sempre più asfissiante e sterile. Io cerco di provocare, di portare luce.

Hai nostalgia di un mondo in cui «ci si stupiva di tutto», come quello di Francesco? In cui la realtà è un libro, ti parla, è tutta un segno che rimanda immediatamente a un significato?
Se è nostalgia, è nostalgia del presente. Io la realtà la sento abbastanza così.

Ma per te Cristo chi è?
Sicuramente uno dei più grandi spiriti che hanno attraversato l’umanità. È una questione grande. Ho sempre paura di giocare con le parole. Le uso anche per lavoro, certo, ma ho timore del fraintendimento... Per dire, mi sono chiesto spesso: ma Lui come usava l’arma del linguaggio? Lo sappiamo indirettamente, attraverso quattro testi che riportano certe sue frasi che, per certi versi, dicono cose che si ritrovano pure in testi induisti o buddisti. Ma credo che in Gesù si arrivi davvero a un limite dell’umano. Se mi passi il termine, con Cristo “va in scena” il massimo che possa fare un uomo per gli altri uomini. Pensa alla Passione, altra cosa che mi piacerebbe molto affrontare... Ma la Passione ha senso solo se c’è la Risurrezione.

Tu credi nella Risurrezione?

(silenzio) Non dei corpi. Ma del Senso, sì. Con la “S” maiuscola. Essendoci un Senso, la Resurrezione ha senso. Sarebbe tutto assurdo senza Resurrezione. Anche la vicenda di Gesù: sarebbe solo la storia di un pazzo, qualcosa che al massimo potrebbe piacere a Sartre... Certo, lì viene fuori la questione di “dove ti poni”, a quale distanza.

Cosa pensi dell’“altro” Francesco, il Papa?
Mi piace molto. Mi piace il fatto che sia un gesuita e insieme si ispiri proprio a Francesco. Mi piace la fecondità del contrasto tra queste due anime del cattolicesimo. Mi piace che venga da Buenos Aires e abbia vissuto quella storia, quelle vicende. Che sia arrivato dov’è, nella consapevolezza di quale grande lavoro ci sia da fare. E mi piace la storia, come si è svolta: con Benedetto XVI, questo grande teologo che si ritrova lì, scelto, chiamato, ma che a un certo punto capisce che gli è chiesto altro... Mi colpisce molto Joseph Ratzinger. È uno dei maggiori intellettuali contemporanei e credo che sia una persona che abbia vissuto molto intensamente. Se esiste papa Francesco è perché è esistito Ratzinger. Lo Spirito Santo si è mosso molto bene.