<em>Colpa delle stelle</em>, John Green.

Quando il dolore non è uno scandalo

Nessuno se lo aspetterebbe. Eppure, anche la generazione del "tutto-e-subito" non vuole libri che camuffino la realtà. E davanti alle questioni che nascono, la censura non è più la soluzione...
Luigi Ballerini

Esisteva la chick-lit, la narrativa dedicata alle giovani donne. Il termine, davvero poco onorevole, arrivava da chick (diminutivo nello slang americano di “pollastrella”) e lit (che stava per letteratura). Il Diario di Bridget Jones di Helen Fielding, Sex and The City di Candace Bunshell fino a Il Diavolo veste Prada di Lauren Wisberger ne sono gli esempi più famosi. Se questo fenomeno sembra in parte stabile, l’attenzione è ora tutta per la cosiddetta sick-lit. Dove lit resta sempre per letteratura, ma sick sta per malattia. Una letteratura indicata per YA, young adults, la nuova categoria del marketing editoriale che va dai 14 in su.

I casi più noti sono certamente Colpa delle stelle di John Green, la cui recente trasposizione cinematografica ha ridato linfa a un successo letterario di dimensioni globali, e Braccialetti Rossi di Albert Espinosa, che dopo la fiction italiana di successo sta per diventare una serie tv americana addirittura per la regia di Steven Spielberg. Ma pensiamo anche al bellissimo I dieci mesi che mi hanno cambiato la vita, di Jordan Sonnenblick, vincitore del Premio Bancarellino 2014, e allo stesso Bianca come il latte e rossa come il sangue di Alessandro D'Avenia.

Gli adulti parlano molto di questa letteratura come fenomeno, in sedi specialistiche e non. I giovani, soprattutto ragazze, la leggono molto. Si appassionano, e si commuovono. Non mancano anche le voci critiche, e l’accusa è proprio quella di speculare sulla malattia per aumentare il fatturato. C’è addirittura chi paventa comportamenti patologici indotti o alimentati da queste storie a sfondo ospedaliero.

Eppure ai giovani piacciono, e se le vendite salgono non è solo per le relative operazioni di marketing letterario, quanto per un passaparola contagioso. Il dato più evidente che spicca ai nostri occhi è come i più giovani desiderino guardare in faccia proprio quelle tematiche che gli adulti spaventati tentano di censurare da tempo, innanzitutto a loro stessi. La morte, la malattia e il limite che vogliamo a ogni costo buttare fuori dalla porta del quotidiano rientrano nella vita dalla finestra della letteratura.

Non si creda ci sia del masochismo in questo; in molte di queste storie ciò che le riempie non è il male, bensì l’amicizia, gli affetti della famiglia, le contraddizioni, le parole che affiorano alle labbra e quelle che si arrestano, l’amore che nasce e si interrompe, la ripresa di chi resta, le attese confermate o deluse, la speranza.

Nel panorama attuale vale l'indicazione di valutare questi romanzi, uno a uno, senza affastellarli in un gruppo indistinto. Le storie migliori sono quelle i cui protagonisti risultano credibili e verosimili nel loro porsi questioni interessanti e cercare risposte convincenti. Le storie meno riuscite sono, invece, quelle che hanno come unico e morboso protagonista la malattia, con i diversi personaggi ridotti a puro contorno. I ragazzi, però, se ne accorgono e dobbiamo confidare proprio nella loro capacità di giudicare le vicende di carta in cui si immergono. Sentono subito puzza di bruciato alle prime avvisaglie di una storia banale fatta solo per promuovere una commozione prêt-à-porter. Spesso sono lettori più accorti ed esigenti di quanto noi supponiamo.

Dei buoni libri che parlano (anche) di malattia i ragazzi apprezzano proprio che se ne parli, che non sia più un argomento tabù. Agli adulti che si precipitano sul telecomando per nascondere il dolore e la morte sembrano dire: «Mostrateceli, se esistono perché nasconderli?»

Un ragazzo che sta ancora bene non ha l'angoscia di morire, chiede piuttosto che non gli venga nascosto nulla. E sa vedere tutta la vicenda, senza fissarsi sulla malattia. Proviamo a chiedere loro di cosa parla il libro che hanno tanto amato: raramente ci diranno che parla della morte. Individueranno, piuttosto, l’amore e l’amicizia.

Sembra paradossale come alla generazione del tutto-consumato-e-bruciato nell’istante con un click sul mouse o una ditata sul touch screen piacciano invece le storie dove il per sempre permea ogni pagina, come una promessa. Ma paradossale non è: dietro la passione per questi libri si nasconde anche il desiderio di una tenuta, di una durata nel tempo, di qualcosa che tenga oltre l’emozione effimera di un momento. Si svela l’attesa di rapporti sinceri e soddisfacenti, privi di maschere e finzioni, in cui mostrarsi senza orpelli. Stanchi di selfie forzatamente sorridenti, i più giovani sembrano rivendicare il diritto di fermarsi a pensare, di porsi delle questioni e cercare delle risposte. Si può essere felici a sedici anni anche con una gamba sola? Cosa resta del rapporto con i miei genitori se sono così concentrati sulla malattia di mio fratello? Come posso continuare se chi amo se ne va per sempre?

C’è da augurarsi che qualcuno sappia raccogliere e intercettare queste domande, talora nascoste dietro un’apparenza di superficialità, perché si dia realmente la possibilità di un’esperienza che vi risponda. Oltre a quella letteraria, già di per sé densa e coinvolgente.

È difficile distinguere se la sick-lit esista realmente o se esista solo nella testa di chi la chiama così. E forse è anche poco importante. Quello che è certo è che abbiamo bisogno di storie vere, che non abbiano paura del reale, che ribadiscano che non dobbiamo restare forever young, che non indichino la perfezione come ideale dell'io, che non abbiano scandalo del limite, che offrano soluzioni da giudicare.

Di storie così, sane e non certo sick, non dobbiamo avere paura. In fondo, raccontano la vita, che non solo vale la pena di essere vissuta, ma che vale la pena anche di essere letta.