Paola Bergamini al ritiro del premio De Carli.

Un premio per Tracce

Con un articolo su un'opera di "periferia", la mensa dei poveri delle suore Elisabettine di Padova, il vicedirettore della nostra rivista, Paola Bergamini, si è classificata al terzo posto del concorso giornalistico Giuseppe De Carli

L’appuntamento era fissato per giovedì 20 novembre. A fare da cornice, il Seraphicum, la sede della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” di Roma, nella zona di Tre Fontane. Il quadro? La consegna del premio giornalistico intitolato a Giuseppe De Carli, storico vaticanista Rai scomparso nel 2010, e alla cui memoria è stata creata associazione dedicata all’informazione religiosa.

Alla sua seconda edizione, il concorso era aperto a tre diverse categorie, testi scritti, video e giovani under 30, oltre all’immancabile riconoscimento alla carriera, con l’intento di valorizzare quanti si impegnano in questo speciale ambito del giornalismo, con le capacità e la serietà che hanno sempre caratterizzato l’operato di De Carli.

Primi classificati, Daniele Bellocchio de L'Espresso per la categoria "under 30", ad Aldo Maria Valli del Tg1 per la categoria "video" e ad Andrea Tornielli de La Stampa per "testi scritti". A Luigi Accattoli invece, vaticanista emerito del Corriere della Sera, è stato assegnato il Premio alla carriera.

Tra i premiati, quest’anno, anche il nostro vicedirettore, Paola Bergamini, classificata al terzo posto nella categoria riservata ai giornalisti “scrittori” con un pezzo sull’opera delle suore Elisabettine che a Padova gestiscono una mensa per i poveri.



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L'articolo vincitore
Padova: la gratuità che spela (da Tracce, ottobre 2013)
di Paola Bergamini


Uomini e donne in coda con cinquanta centesimi in mano. E nell’altra un sacchetto con quello che resta di una vita. Siamo entrati nella mensa di Padova dove le Suore Elisabettine accolgono centinaia di poveri ogni giorno. «Perché il Signore è lì»

Mezzogiorno. Gianfranco alza gli occhi verso il display appeso in fondo alla sala: 235. «È il mio numero. Michele, ci vediamo dopo. Magari facciamo una partita a carte». Si alza e va verso lo sportello. «Buongiorno, suor Lia. Cosa si mangia?». «Buongiorno. Puoi scegliere tra spaghetti e risotto, la verdura, e un “tocco” di formaggio». L’uomo allunga 50 centesimi e si mette in coda. Dietro di lui, un’anziana signora trascina un carrello con legati due sacchetti e un borsone nero, non lo molla nemmeno per prendere il vassoio con il pasto. Dentro c’è quello che le è rimasto della sua vita.
Gianfranco, 49 anni, ha perso tutto: famiglia, lavoro. Dorme dove trova. Ogni giorno per avere un pasto caldo viene alle Cucine economiche popolari, l’opera della Chiesa padovana, a due passi dalla stazione della città veneta, gestita da quattro suore Terziarie Francescane Elisabettine. «Qui c’è anche un po’ di compagnia», dice mentre si incammina verso il refettorio.
I numeri scorrono sul display. «Si arriva fino a 500 pasti», dice Michele, uno degli operatori, assunti regolarmente alle Cep. La sala è piena, ma il flusso delle persone è continuo. Qualcuno dorme rannicchiato su una panca. In un angolo una donna accarezza il suo bambino addormentato. Un uomo con occhiali scuri entra ed esce in continuazione, parlando tra sé e gesticolando. Una ragazza sussurra a un’altra: «Prova a chiedere a suor Lia, dopo, quando tutti sono a mangiare». È un bailamme di lingue e dialetti. Ci sono italiani e stranieri, giovani e anziani. In comune hanno solo la povertà, spesso la rabbia di chi ha perso tutto, anche il rispetto di sé. La periferia materiale ed esistenziale di papa Francesco qui la tocchi con mano. E verrebbe da girare la testa per non vedere. Scappare. Ma qualcosa inchioda a rimanere, a guardare. Forse proprio l’eco delle parole del Papa.

Chi glielo fa fare? Alla mattina presto, quando si aprono le porte, c’è già la fila. «Vengono per farsi una doccia, sbarbarsi. Se hanno bisogno c’è un servizio medico dove medici volontari prestano gratuitamente la propria opera», spiega Davide, operatore. «Possono lavare i vestiti oppure richiederne di puliti. Spesso non hanno neppure un cambio. Nel seminterrato ci sono indumenti e scarpe usati regalati dalla gente della città. Noi scegliamo quelli in buono stato e poi li dividiamo in modo che nel limite del possibile possano scegliere. E poi c’è sempre il tempo per parlare, chiedere o solo ascoltare». Mentre parla, stacca i biglietti con i numeri per il pasto. «A te l’ho già dato un’ora fa! Non imbrogliare». Il ragazzo va via imprecando. Si avvicina un signore di mezza età. «Ciao, sei andato per la medicazione? Suor Lia vuol sapere come va». «Una non bastare. Devo farne altre. Suora deve trovare soluzione», risponde in mezzo italiano.
Alle 14 la cucina chiude. Riapre alle 18 fino alle 19,30 per la cena. Qualcuno tenta lo stesso di entrare. Michele è irremovibile. «No, è la regola». «Chiama la suora». Le voci si alzano. Ed eccola, suor Lia. Taglia corto: «Perché non sei venuto prima?». «Ero in giro, non potevo. Cosa le importa?». Non aspetta la risposta ed esce bestemmiando. Intorno il silenzio. Tutti la guardano. Lei si rimette a posto il velo e va verso il refettorio. Chi impreca, chi pretende, chi bestemmia. È davvero un’umanità al margine di se stessa. Comincia a farsi largo una domanda: ma chi glielo fa fare?

Sputi in faccia. «Verrebbero a tutte le ore per mangiare. Ma non è possibile», spiega suor Lia Gianesello, 70 anni e sguardo fermo che dal ’90, dopo un ventennio di insegnamento nella scuola elementare, è stata chiamata con le sorelle della sua comunità a gestire il servizio delle Cucine. Perché non è possibile accontentarli, in fondo vogliono solo mangiare? «Ci vuole un ordine per i vari servizi che questo centro offre, altrimenti non si riesce a rispondere ai bisogni delle persone. Un minimo di ordine per l’organizzazione, ma anche per gli ospiti. Questo è un agglomerato di povertà, in tutti i sensi. Oltre a quella materiale, rischiano di perdere la propria ricchezza umana. La periferia estrema. Basta un niente perché scoppi la lite. Qualche giorno fa uno mi ha sputato in faccia. Non è la prima volta. Gli ho detto che per una settimana non si deve presentare. Ti buttano addosso tutta la loro rabbia. Non li compatiamo, il rapporto è di stima. Li trattiamo da uomini in grado di recuperare almeno la propria dignità. Questo servizio è proprio per promuovere la dignità umana: attraverso il cibo, il vestiario, la possibilità di una doccia. Riprendersi il valore della vita. Se si perde di vista questo, meglio chiudere».

«La nostra forza». Per questo viene chiesto un contributo: 50 centesimi per un primo, verdura e formaggio. Due euro e 50 per un pasto completo. «È un modo per evitare il parassitismo. Cerchiamo di responsabilizzarli. E poi così recuperiamo qualche risorsa economica». Ride, quando dice questa ultima frase. Una cassetta di monete ad ogni pasto è niente per il bisogno che c’è. Ma la Provvidenza alle Cucine non ha mai fatto mancare nulla. Il Banco Alimentare garantisce la maggior parte di fornitura di pasta, legumi e pelati. L’8 per mille erogato attraverso la Diocesi è l’aiuto economico fondamentale per far fronte alle tante spese di gestione.
Mentre parla, suor Lia svita i tappi delle bottiglie di plastica vuote. E intanto il suo cellulare suona. Qualcuno per chiedere, qualcuno per donare. Non si nega a nessuno. Riprende: «La Diocesi ci aiuta in tutti i modi e poi ci sono i privati. In questo periodo di sagre, tutto quello che avanza viene portato qua. Oppure arriva la telefonata che ti dice che al mercato c’è frutta e verdura di seconda scelta a minor prezzo. Si va, si compra e poi tutti a pulire. Certo, la crisi si fa sentire. Da due mesi l’associazione che ci regalava un quintale di pane al giorno non può più permetterselo». La crisi ha riportato nelle Cucine persone che suor Lia non vedeva da dieci, quindici anni. Quelli che pensava ormai indirizzati sulla strada giusta, con un lavoro, una casa. Li ritrova in coda per il pasto. Senza più famiglia, perché hanno dovuto rimandarli nel Paese d’origine.
Tante storie. «A volte mi viene da dire troppe», sussurra. Sono tutte incastrate nel suo cuore. E infine la domanda esce: non si scoraggia mai, suor Lia? Cosa la fa ricominciare ogni giorno? «Gesù Cristo. L’Eucaristia ogni giorno è la nostra forza. La certezza che ogni uomo è figlio di Dio. Questa fede si rinnova quotidianamente. RiconoscerLo nell’uomo depravato, umiliato che ti insulta. Il Signore è lì. Qui non c’è il povero gentile. Difficilmente tornano a ringraziarti. Non puoi vivere la gratuità se il Signore non te la dona. E questa è una gratuità che spela. Nel loro bisogno, persino nella loro rabbia io mi ritrovo. In questi anni mi è ritornata una capacità di lettura della mia vita, del mio cuore e la consapevolezza che non sono migliore di loro».

L’odore delle pecore. Quando gli ospiti hanno finito, suore, operatori e volontari pranzano. Perché la Provvidenza significa anche braccia che gratuitamente cucinano, puliscono, mantengono l’ordine in refettorio. «Senza di loro questa opera sarebbe impossibile», dice suor Lia. Laura da 21 anni, da quando è in pensione, attraversa la città tutti i giorni per cucinare con suor Ameriga. Graziella è allo sportello a preparare i vassoi. «Venire qua è come prendere una medicina per stare bene. Non posso più farne a meno». Lucio da due anni è in refettorio. Ritira i vassoi, pulisce i tavoli, consegna il pane. «Me lo aveva proposto mio figlio. Queste persone danno più di quanto io faccia. Non so come spiegarlo. Bisogna provare». Carla sottovoce: «Queste suore sono predilette, scelte da Lassù. Noi lo vediamo».
Giuseppe, laurea in Biologia, dopo il servizio civile ha deciso di fermarsi a lavorare. «Sei sempre a contatto con il bisogno, devi essere accogliente, ma fermo. È proprio un bel lavoro. Ho compreso il valore di quello che ho: nulla è scontato, neppure una famiglia che ti vuole bene». Anche Michele aveva svolto alle Cucine il servizio civile, ma lui un lavoro lo aveva. «Sono tornato in azienda, ma il pensiero era rimasto in queste stanze. Quando ho saputo che assumevano, mi sono licenziato e sono venuto. A volte è difficile stare con queste persone, mettono a dura prova la pazienza. Ma non cambio».
In cucina si pulisce e si imposta la cena. In cortile suor Lia controlla le ceste di verdura appena scaricate. Quattro ore trascorse in queste stanze fanno venire in mente le parole di papa Francesco: «Siate pastori con l’odore delle pecore». Lei dice: «Sì, e con il profumo di Gesù Cristo. Una volta sentivo la preghiera come rapporto solitario con Dio. Alla ricerca di un’emozione. Adesso, quando in ginocchio prego, non sono più sola, c’è un popolo con me. E questo arriva a Dio». E ricomincia a contare le ceste.