Toni Servillo in Cometa.

Dietro la voce di Toni Servillo

Oggi è forse il più famoso attore italiano. Del suo "mestiere", e della bellezza delle parole, ha parlato a ragazzi della Oliver Twist che studiano per diventare camerieri e falegnami. E di che cos'è l'arte che si chiede sempre "Pecché? Pecché?"
Luca Fiore

«La Oliver Twist è un istituto professionale dove si impara a fare con le mani, si impara un mestiere. E questo mi mette a mio agio, perché anche quello dell’attore è un mestiere. Al posto del legno o del tessuto, io manipolo un altro tipo di materiale: il testo poetico, che all’inizio è inerte, ma se lavorato prende forma». Oggi Toni Servillo è forse il più famoso attore italiano. Reso celebre dai ruoli interpretati per il cinema, su tutti il Jep Gambardella de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, era e rimane un artista legato al palcoscenico. L’anno scorso è andato a Los Angeles ed è tornato con un Oscar nella valigia ma, come si dice troppo spesso a vanvera, il successo non sembra avergli dato alla testa. Almeno è questa l’impressione a guardarlo parlare con duecento ragazzi di Como, teso a farsi capire senza cadere nella facile battuta o nella trappola della semplificazione. I ragazzi, che seguono i corsi di falegnameria, tessile e sala bar, lo hanno ascoltato parlare di sé, hanno fatto domande, lo hanno visto in azione mentre recitava Litania di Giorgio Caproni: Genova mia città intera. / Geranio. Polveriera. / Genova di ferro e aria, / mia lavagna, arenaria.
Che cosa ci facesse venerdì scorso, il 17 aprile, alla Cometa di Como, lo ha spiegato lo scrittore Luca Doninelli, che per gli studenti della Oliver Twist ha inventato il ciclo “Cosa c’è dietro...” invitando, tra gli altri, il trio Aldo, Giovanni e Giacomo, il fotografo Gabriele Basilico, il designer Alessandro Mendini, l’architetto Mario Botta: «Questi ragazzi non sanno parlare bene, non sanno dire bene le parole. Invece parlare bene è importante, perché ci aiuta a pensare meglio. Le parole sono una cosa meravigliosa, come bellissimi sono i tavoli e le sedie che i ragazzi di questa scuola realizzano e che erano esposti al Salone del mobile. Ho voluto che venisse Servillo perché non conosco un attore italiano che dica le parole come le dice lui, cioè con la stessa capacità di farle comprendere».

Servillo arriva in Cometa in una mattina di pioggia. Erasmo Figini, da padrone di casa, gli tiene l’ombrello mentre gli fa fare il giro della casa e del giardino. A terra ci sono i petali del grande glicine che si arrampica sui muri rossi del casolare. Chiede un caffè e lo fanno sedere al bar-laboratorio con i tavoli realizzati durante i corsi falegnameria. Il pasticcere, che è napoletano, vuol far assaggiare all’attore di Salerno le sue sfogliatelle. La gente si avvicina e le domande iniziano prima ancora dell’incontro ufficiale. «Lei e suo fratello... (Peppe Servillo, leader degli Avion Travel, ndr). Come è possibile che da una famiglia sola escano due artisti così?». «La mia famiglia era piccolo-borghese. A casa non c’era un libro. Ma sa, quando si è ragazzi non si fa nulla, si perde tempo. Eppure è in quel vuoto che senti una mancanza... Che poi è quella che mette in moto il desiderio. In casa arrivò per caso una copia del Reader’s Digest con il racconto di Buzzati intitolato Il grattacielo. Da lì iniziai a leggere e poi...». «E quella mancanza? Ce l’ha ancora?». «Sì, ma si è completamente trasformata». Non c'è tempo per approfondire, peccato.

Servillo, nell’aula magna della Oliver Twist, non fa sconti ai ragazzi e vola alto: «Il materiale drammaturgico viene lavorato nel tentativo di dargli una dimensione palpitante, viva, in modo da poter trasmettere sapienza, esperienza, per offrire una testimonianza. Dare l’opportunità di fare un vero e proprio incontro». I ragazzi domandano: cosa vuol dire che il teatro è un incontro? L’attore risponde raccontando un aneddoto. È a Genova per una replica di Le voci di dentro di Eduardo De Filippo. «Era lo spettacolo pomeridiano e la sala era piena di spettatori con un’età media tra i settanta e gli ottant’anni», racconta Servillo: «Nel testo c’è una battuta tra un giovane e un anziano. E il giovane, con una certa spocchia, dice all’anziano: “Non c’è niente da fare, se non morite voi, non c’è spazio per noi”. E l’anziano risponde: “Un poco di pazienza e moriamo tutti quanti”. E al quel punto, con mia sorpresa, perché non era mai capitato in un tutta la tournée, è scoppiato l’applauso. Per chi quel pomeriggio era seduto in platea il problema della morte era una questione che lo riguardava da vicino. È questo che intendo quando dico “teatro come incontro”: è un momento in cui ci si trova e si ha l’opportunità di pensare insieme».

Altra domanda dei ragazzi: «Come ha fatto a trovare la passione per questo lavoro?». Risposta: «La passione non si trova, non è qualcosa che sta da qualche parte e la prendi. Le cose si scoprono. A un certo punto ho trovato che nella dimensione della rappresentazione ci fosse un modo di ricevere il racconto del mondo e un modo di raccontare il mondo che mi seducevano». E anche qui Servillo torna alla sua esperienza e all’imprescindibile Eduardo: «Quando ero ragazzino la televisione trasmetteva molto teatro e soprattutto le commedie di De Filippo. Il 25 dicembre c’era quasi sempre Natale in casa Cupiello. Le commedie di Eduardo sono affollate di zie zitelle, zii scapoli, madri nevrotiche, padri irresponsabili. Noi avevamo l’abitudine di guardare questi spettacoli tutti insieme. Io ero appoggiato a una sedia, ero piccolo, e dietro di me c’erano tutti: i miei fratelli, i cugini, gli zii, i nonni. A un certo punto guardavo quel che accadeva sullo schermo e mi dicevo: “Ma questi sono gli stessi che stanno alle mie spalle”. Ho avvertito questa ferita che mi ha sedotto per tutta la vita. Sono scoperte che si fanno e, pian piano, per me questa è diventata una passione».

Dopo l’incontro c’è il pranzo al ristorante didattico. Lo studente-chef presenta il menù. La cottura dei paccheri è perfetta, osserverà Servillo. Erasmo Figini riprende un’osservazione fatta all’incontro: «Hai toccato un punto fondamentale. Vedo che i ragazzi, a volte assecondati dagli adulti, sono terrorizzati dalla monotonia della quotidianità. Ma per me la routine non esiste, la facciamo noi. Siamo noi che riduciamo il quotidiano e lo facciamo diventare monotono». Al bicchiere di moscato, qualcuno fa un’altra domanda impegnativa e l’attore, che sa di essere attore, risponde: «Dopo questa mattinata e questo vino è difficile rispondere senza recitare». Come dire: fin qui ho provato a non farlo.

Il cronista seduto al tavolo prova a fare il brillante e dice che nel trailer appena uscito dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, La giovinezza, il volto di Michael Caine, il grande attore inglese, ricorda la maschera dello stesso Servillo. «Siete sempre i soliti, voi giornalisti, sparate sentenze senza vedere. Io quel film l’ho visto e Michael Caine è il gigante che è. È stupido paragonarlo a me». E continua: «È questo quello che volevo dire quando prima parlavo della parola prostituita alla comunicazione. Prendete un comunicato stampa e per La parola canta (lo spettacolo di canti e brani di letteratura partenopea, portato in scena con il fratello Peppe, ndr.) scrivete: «Atto d’amore per Napoli». Ma quale “atto d’amore”? Che cosa vuol dire? Lì c’è la poesia, c’è l’arte. E l’arte, in fondo, si chiede sempre "Pecché? Pecché?". È questo il punto».

La macchina riparte da Como solo dopo il vicendevole scambio di grazie e arrivederci. Sul sedile posteriore c’è il tempo per una chiamata alla moglie insegnante, qualche parola sul prossimo spettacolo. E il pensiero per il figlio minore che ha appena compiuto dodici anni: «E neanche stavolta ero a casa... Questo non è come il maggiore, diciottenne. Mi ammazza quando dice: “Papà, mi manchi”. Poi mi ammazza la seconda volta: “Ma papà, sono orgoglioso di quello che fai”». Presto finirà la tournée, e ci sarà un mese di pausa per stare un po’ insieme.