Elena Bono.

«Che non scriva mai nessuna parola inutile»

Morta l'anno scorso, è stata una delle più grandi scrittrici italiane del Novecento. Un cuore "semplice", la cui vita e la cui opera sono intrecciate a doppio filo con ciò che «ha visto e udito del Mistero della vita»...
Francesco Marchitti

«Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi». La sintesi di Giovanni, il binomio perfetto di testimonianza e narrazione, è la suggestiva chiave di lettura che introduce al fenomeno Elena Bono, scrittrice scomparsa l’anno scorso e considerata tra le più importanti del secondo Novecento. E se, da un lato, suona come un invito per chi si è ritrovato partecipe di eventi notevoli, dall’altro, il versetto evangelico comunica la cifra profonda dell’artista, la cui vita è stata interamente spesa per tradurre in pagine di rara bellezza ciò che del Mistero della vita ha “visto” e “udito”, assecondando quel fenomeno vertiginoso che è stata la sua ispirazione.

Il 26 febbraio 2014 la poetessa si spegneva all’Ospedale di Lavagna e nello stesso giorno, “per singolare coincidenza”, usciva su L’Osservatore Romano la sua ultima intervista. Da quel momento ha preso il via una catena ininterrotta di iniziative, una fioritura costante cha ha profumo di sovrabbondanza. «Questa è l’acqua», direbbe allora David Foster Wallace, per ricordarci che la meraviglia dovrebbe essere la regola della vita. E dunque: un ciclo di trasmissioni su Radio Vaticana, due volumi pubblicati presso Marietti, sette incontri di presentazione in altrettante città e quattro repliche teatrali a cura di due diverse compagnie. E, in parallelo, il regista Marco Gandolfo ha confezionato il prezioso e struggente “Bisagno”, documentario sulla figura di quell’Aldo Gastaldi partigiano bianco, conosciuto dalla Bono e dedicatario di liriche in vita e di uno studio post mortem da parte della scrittrice.


La recente pubblicazione del racconto La moglie del Procuratore (Marietti, pp. 208, € 12), sta generando un felice contagio tra i lettori, sempre più numerosi e appassionati. Stupore e commozione sono la cifra di quello “spezzare il pane della parola”, la comunione con l’opera auspicata da Stas’ Gawronski, critico letterario e amico di lunga data della Bono. Contraccolpi che furono già del critico Emilio Cecchi, che non risparmiava i superlativi assoluti, e dell’esordiente Pier Paolo Pasolini, che si invaghiva dei personaggi creati dalla scrittrice.

Siamo negli anni Cinquanta e l’editore è Garzanti; la trentunenne Elena Bono si presenta con la sua prima opera, una raccolta di poesie, seguita poi da un dramma teatrale e a breve distanza da una raccolta di narrativa, ovvero il pluri-recensito Morte di Adamo da cui è tratto il racconto citato. L’intero corpus letterario dell’artista seguirà fino alla fine i tre binari di poesia, teatro e narrativa (cfr. Quando io ti chiamo – Invito alla lettura di Elena Bono, a cura di F. Marchitti, Marietti, pp. 158, € 10). E anche oggi, al pari degli anni Cinquanta, firme prestigiose come Armando Torno e Alessandro Zaccuri, salutano il ritorno della scrittrice nell’editoria di largo respiro, includendo nel novero anche esponenti della cultura fieramente laica come Silvia Ronchey, dalle colonne di Repubblica.

Nutrita di solida cultura classica, la scrittrice si mostra da subito padrona di un linguaggio che Cecchi definisce «estremamente composito e al medesimo tempo capace delle più strane, labili evocazioni»; un melting pot che incarna una pluralità di stili, idiomi e vicende. Unito a una conoscenza non comune del contesto storico e culturale dei personaggi, dà vita a quella che Tolkien chiama “sub-creazione”. Si tratta, cioè, della costruzione di un mondo che avviene riga dopo riga, episodio dopo episodio, che assume via via l’inconfondibile spessore delle cose reali.

Ma estro creativo, cultura e raffinata sensibilità non sono sufficienti per varcare la soglia oltre cui l’arte, pur rimanendo un’attrattiva di sommo grado, diventa trasparenza immediata dell’altrove a cui mira. La capacità di “rendere visibile l’invisibile”, che appartiene ai grandi artisti, nasce in Elena Bono come unità profonda della persona, in cui il dono di una ispirazione realmente vertiginosa, il “sentire” dal vivo le voci dei personaggi, non è separato dal sentimento della vita come responsabilità e vocazione. «Quando compresi che ero stata chiamata a servire la verità attraverso l’arte dello scrivere, dissi a Gesù: “Bene, se così deve essere, fa’ che non scriva mai nessuna parola inutile”». Un rapporto personale e intimo, vissuto giorno per giorno; una presenza divenuta oggetto e sostegno all’incessante lavoro di riscrittura, all’infaticabile labor limae che sempre si trova dietro le quinte dei grandi capolavori.

C’è una interessante analogia tra il romanzo La moglie del Procuratore della Bono e la moderna temperie socio-culturale. Claudia Serena, vedova e in precedenza moglie del procuratore Ponzio Pilato, arriva alla villa di Seneca quando la festa volge al termine. Vi trova un ambiente raffinato, un jet-set culturale. Non lo stereotipo di vizio e lassismo da capitale decadente, ma un salotto simile ai moderni consessi multi-culturali, globali e open-minded, attenti a superare le differenze di lingua e fuso orario per dare spazio a una aperta condivisione. L’analogia diviene ancor più vivida quando il teatro delle idee, allestito con sovrana maestria, non perviene a soluzione alcuna, incapace di rispondere agli enigmi della vita. Si perde in un labirinto problematico e soffocante, saturo solo di analisi e opinioni. Nemmeno Seneca, il più avvertito e rispettato degli intellettuali, è in grado di offrire un vero orizzonte di significato. Il quale arriva invece per bocca di Claudia, che dopo essersi ritirata nelle sue stanze per non rispondere ai quesiti sul Galileo, confessa a Seneca la verità tutta intera, in un appassionato dialogo che durerà tutta la notte.

Siamo al climax della storia: il mistero di un Dio fatto uomo e anche morto in croce a causa nostra, è inconcepibile, sconvolgente, inaccettabile per il «castello imprendibile» che è Seneca. Ma «esiste un’altra via», dice sommessamente Claudia: «Farsi un cuore diverso [...] Abbandonare il cuore com’era... pieno di tutte le cose sue [...] e prenderne uno ignaro, docile, come dopo tutto può averlo, o è vicino ad averlo, un brigante... un centurione».

Oggi, come duemila anni fa, la strada è quella di un cuore semplice, pronto a ricevere Qualcosa che lo colmi. La lettura della Bono è una rivelazione, è il riaccadere di un incontro. È quel rapporto con l’opera d’arte che svela l’uomo a se stesso lungo la via della Bellezza.