"L'annuncio a Maria" messo in scena da Paolo Bignamini.

Il desiderio di squarciare il velo dello cose

Dopo aver destato qualche scalpore al Meeting di Rimini, torna in scena al Litta di Milano "L'annuncio a Maria" di Paolo Bignamini. L'occasione per guardare al testo di Claudel senza pregiudizi. Cioè, senza evitare «un paragone con se stessi»
Luca Doninelli

Per una settimana, dal 15 al 20 dicembre, il Teatro Litta di Milano ospiterà una versione molto interessante de L’annuncio a Maria di Paul Claudel, uno dei testi più cari alla storia di CL, di cui lo stesso don Giussani diede una lettura magistrale in una lezione oggi raccolta in Le mie letture (Rizzoli-Bur).

L’allestimento di Paolo Bignamini, ottimo regista, ha destato scalpore all’ultimo Meeting di Rimini (complice anche la location inadatta: troppo grande il salone, nessun maxischermo), suscitando molte discussioni soprattutto riguardo alla figura di Violaine, che rispetto alla lettura abituale - forse troppo abituale - risulta personaggio carnale, per nulla indirizzato verso un destino mistico.

In realtà, questo testo - considerato un classico in Francia e tuttora molto rappresentato - non ha trovato in Italia registi “cattolici” in grado di raccoglierne tutta la potente sfida religiosa, spesso scandalosa per un benpensante sia pur credente. L’annuncio è un testo duro, perché alla mentalità odierna risulta difficile capire fino a che punto un’esperienza autenticamente religiosa possa sviluppare forme di vita nuova, e si è portati a considerare la forma (che so, matrimonio, convento, sacerdozio ecc.) come qualcosa che precede la vocazione, una specie di canale già pronto a raccogliere e dirigere il fiotto che verrà.

La bellezza del mondo è, viceversa, quella puntura continua, incessante, per cui la vita dentro l’apparenza delle cose si rende insopportabile: la bellezza è l’inizio dell’Invisibile dentro il visibile, e questo genera uno strazio, che fa dire a santa Teresa d’Avila «moio perché non moio».

Di fronte alla bellezza, l’animo religioso (ossia l’animo semplice, pieno di ragioni umane) è preso dal desiderio di squarciare il velo delle cose: pensiamo a quante strane forme di vita (una anche sotto i nostri occhi: la clausura) dà luogo questa fretta di verità, che rende insopportabile la carne.

Chi non crede subisce il fascino di questa fretta, e non vedendo alcun punto di trapasso dell’esperienza terrena ne coglie talora gli aspetti di sensualità, di carnalità. Ma questo è il sintomo che il grande testo di Claudel è giunto a bersaglio.

Paradossalmente - questa è anche la bellezza del teatro -, chi non crede resta affascinato dalla potenza di questo testo, di cui chi si dice cristiano ha spesso paura, oppure si accontenta di una lettura devota (cosa ben diversa dalla lettura di Giussani che, per inciso, non evita gli aspetti perturbanti di questo capolavoro).

Il problema, infatti, non è dirsi credenti o meno: il problema è se percepiamo che questa vita non ci basta o se ce la facciamo bastare.

Paolo Bignamini, aiutato dalla splendida traduzione di quel fuoriclasse che è Fabrizio Sinisi, cerca di guardare, attraverso la lente generosa di Claudel, dentro il mistero della fede e dentro il buio della non-fede. Lo fa con onestà, sincerità, intelligenza.

Per questo vi consiglio vivamente di andarlo a vedere, se potete: non per essere d’accordo con la versione di Bignamini, ma per poter tornare - grazie anche a Bignamini - a leggere L’annuncio a Maria con qualche pregiudizio in meno: ricordando che i pregiudizi positivi sono pregiudizi tanto quanto quelli negativi: gli uni come gli altri ci fanno evitare quel paragone con sé, in cui consiste ogni azione degnamente umana.