L'incontro con Alessandro D'Avenia<br> all'Oratorio Santa Giulia, Torino.

«Ma questa cosa non la vogliamo anche noi?»

Alessandro D'Avenia ospite di una parrocchia del capoluogo piemontese. Un incontro dedicato al "romanzo ai tempi di WhatsApp". Il rapporto con i suoi alunni, il ricordo di don Pino Puglisi e i giovani che si fermano fino alle due per stare con lui
Letizia Bardazzi

Come un contadino che nel piccolo seme di rosa vede già il bel fiore che sboccerà, un professore può vedere in un diciassettenne una storia grande che si sviluppa pian piano, e può decidere di prendersene cura, di regalargli un libro di poesia. Cosa succede in una vita che si spende per gli altri? Che cosa può essere un gesto, una piccola attenzione, cosa può voler dire prestare un libro ad un tuo studente? Si chiede chi quel libro l’ha ricevuto davvero e che di maestri e padri ne ha avuti molti.

«In un accogliente soggiorno a cielo aperto» che è l'oratorio della parrocchia Santa Giulia di Torino, casa dei sacerdoti della Fraternità San Carlo, dove si svolge il “Maggio in Oratorio”, un mese di tornei di calcio e di eventi culturali, una folla di più di mille persone ha incontrato Alessandro D'Avenia che ha parlato del "Romanzo ai tempi di WhatsApp".

L’autore dei tre grandi successi (Bianca come il latte, rossa come il sangue, Cose che nessuno sa, Ciò che inferno non è), parla di sé insegnante, di quando la mattina facendo l’appello chiama ognuno dei suoi ragazzi uno ad uno e si trova davanti al mondo di infinita possibilità che ognuno di loro è. Come rose da far fiorire, fatte per essere belle e tutte diverse l’una dall’altra. «Ma l’appello non è che la riproposizione del grande mistero dell’esserci, con tutto il carico di sogni e di progetti che ci troviamo addosso e del sentirsi dire, che inedito sei? Che storia sei venuto a raccontare? E che chiede di metterti al suo servizio».

Meno male che ci sei anche tu, altrimenti mancava un pezzo. Il cristianesimo è questo. «Esiste un modo di alzarsi tutte le mattine e dire, io sono al centro di un’attenzione grande e che fa sì che quella mia lezione, quella pagina, quel mio apparecchiate la tavola risuoni di infinito e che diventi una cosa grande?». Questo è possibile per D’Avenia: «Il desiderio per me é sapere che quell’origine, quel “de” (de + sidera) viene da fuori del tempo, viene da quell’amor che move il sole e l'altre stelle…».

Deve tanto D’Avenia ai suoi maestri: ai genitori che ancora lo sorprendono per l’affetto che gli esprimono, all’insegnante di Lettere che vide in lui il fuoco che lo spinse a diventare insegnante e che gli regalò il libro di poesie; a don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia per il suo costante impegno evangelico e sociale, che insegnava nel liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo.

Don Pino stava nei corridori con i ragazzi del liceo durante l’intervallo solo per sorridergli, stava a servizio di quella novità che ogni ragazzo era e sorrideva per dire: «Tu non devi meritarti l’essere qua, tu sei voluto». Il suo era un esercizio di amore reale, concreto, costante che riservava a tutti, anche nel quartiere periferico di Brancaccio. Uno sguardo liberante che faceva fiorire, che voleva far fiorire tutte le dimensioni dell’umano di coloro che si trovava davanti. Uno sguardo che lo ha reso capace di sorridere anche davanti alla morte.

«Ma questa cosa non la vogliamo anche noi?», chiede D’Avenia: «Come si fa ad abitare la nostra fragile, fallibile condizione umana, costruendo dentro di noi una parte, uno spazio in cui tutto è sempre amore, tutto è sempre libero, e che non può essere rovinato perché non è nostro? La volete voi questa cosa?».

L’incontro si conclude con la lettura di una pagina finale di Ciò che inferno non è, in cui l’autore immagina cosa abbia pensato don Puglisi dal momento dello sparo al momento della morte e cerca di capire quali siano i rimpianti di un uomo negli ultimi minuti dell’esistenza, per arrivare a scoprire che don Pino non rimpiange nessuna delle cose elencate: le ha avute già tutte nell’amore. E può sorridere nell’attraversare la soglia perché le cose più care, per lui, sono già realtà.

Alessandro D'Avenia a Torino è un tutt'uno con il suo pubblico, avvinto a loro, instancabile, fino alle due di notte a firmare libri, «perché con ognuno di loro, prima di firmare il libro, devo scambiare due parole, sapere cosa fanno, chi sono, perché… E quando mi ricapita di incontrarli?».

Il giorno dopo il corpo a corpo fra lui e i suoi lettori, come nel campo da calcio dell'oratorio la sera prima, continua su Facebook: post, foto, condivisioni. Una ragazza gli scrive: «Grazie che ci sei e che sei così, c’è un gusto che riempie la vita quando la dai per l’altro e ho visto in te che conviene. E allora oggi ho ricominciato a trattare tutto e tutti come fossero delle piccole rose».