Pinacoteca di Brera, "Il Cristo morto" di Mantegna.

Un'immagine che "spacca"

Inaugurato il nuovo allestimento del "Cristo Morto" del Mantegna. Il dialogo con il compianto di Annibale Carracci e di Orazio Borgianni. Un confronto che conferma la forza dell'opera. Nessuno sconto alla drammaticità della morte, eppure quel volto...
Giuseppe Frangi

Ci sono opere d’arte così potenti che sfuggono quasi dalla paternità dei loro autori. Il Cristo morto di Andrea Mantegna è certamente una di queste. Quell’immagine folgorante che ricostruisce un momento preciso della vicenda umana del Signore, il momento dell’unzione del suo corpo prima della sepoltura, è esito della genialità del suo autore. Ma è un’immagine che in modo così sintetico e potente restituisce il dramma dell’esperienza della morte, tanto da travalicare anche la sua funzione di devozione. È una di quelle immagini, che sono state generate da uno sguardo e da un’esperienza cristiana, ma che parla immediatamente a tutti. Nel gergo di oggi si direbbe che è un’immagine che “spacca”. Ma in realtà il Cristo “de scurto” di Mantegna "spacca" da secoli.

Lo dimostra il piccolo ed efficace dialogo che la Pinacoteca di Brera ha montato in occasione del nuovo allestimento di questo capolavoro del nostro Quattrocento: Mantegna è stato affiancato da due quadri certamente ispirati al suo modello: un Cristo morto con gli strumenti della passione di Annibale Carracci e un Compianto di Orazio Borgianni. Il primo datato 1583, il secondo 1615. Il dialogo conferma la potenza di questo prototipo, che pur concepito dentro la visione quasi ossessivamente prospettica di quel momento della storia dell’arte (il capolavoro di Mantegna è databile attorno al 1483), marca l’immaginario dei pittori. La visione del corpo disteso, preso dalla parte dei piedi, genera infatti uno scorcio violento, che non fa nessuno sconto rispetto alla drammatica concretezza della morte. È una visione che schiaccia, come accade ai tre testimoni che piangono sulla sinistra della tela, e che risultano appunto schiacciati in un angolo, presenze compresse e quasi impietrite dentro un vero guscio di dolore.

Ma l’opera di Mantegna non è affatto un’opera macabra come, ad esempio, si può pensare del celebre Cristo morto nella tomba di Holbein («un quadro che potrebbe far perdere la fede a qualcuno», scrisse non a caso Dostoevskij ne L’idiota). È un’opera in cui la morte domina, ma non vince. Perché l’energia espressiva, la dirompenza dell’immagine concepita da Mantegna è indizio che la storia non finisce lì. È quasi presagio di vita destinata a risollevarsi dalla tomba. C’è un dettaglio che conferma il presagio: è quello del volto di Cristo, che Mantegna dipinge arbitrariamente grande, con palese scorrettezza prospettica. Un volto che nella scabrosità della tela si distingue per un’imprevista, sconfinata dolcezza. Il volto di un uomo non morto, ma di un uomo che si è come abbandonato in un abbraccio.

Ora questo capolavoro lo si può godere in un allestimento nuovo, voluto dal direttore di Brera, James Bradburne. Un allestimento che lo restituisce ad una visione perfettamente fruibile, dopo l’esperimento - affascinante, ma complicato - concepito da Ermanno Olmi nel 2013 (una sorta di cappella con pareti nere con il quadro esposto in basso e senza cornice). Mantegna ora spicca su una parete alzata nel centro della lunga sala, rispettando oltretutto un percorso cronologico che in quella stessa sala inizia con un suo capolavoro giovanile, il Polittico di San Luca dipinto per la chiesa di Santa Giustina a Padova e si conclude alle spalle del Cristo morto con la meravigliosa Madonna dipinta dal vecchio Giovanni Bellini (1510). Una sala emotivamente stupenda, ma che offre anche una narrazione storica perfetta di 50 anni creativamente straordinari.