"Elvira", con Toni Servillo.

Nostalgia di un maestro feroce

È in scena in questi giorni, al Grassi di Milano, "Elvira" di Louis Jouvet, con Toni Servillo. Cronaca di una replica "scolastica". In platea, affollata di ragazzi delle superiori, cala il silenzio. Sul palco riaccade un reale rapporto educativo
Luca Doninelli

Questo è il racconto di una sera speciale e inaspettata. Sono andato, martedì scorso, al Teatro Grassi di Milano per assistere a Elvira di Louis Jouvet (1887-1951), una delle figure più importanti del teatro francese del XX secolo. L'attore, Toni Servillo, non si discuteva; mi preoccupava un po' il fatto che Elvira non fosse esattamente un testo teatrale, ma la trascrizione pressoché fedele che un'assistente di Jouvet, Brigitte Jaques, fece di una prova teatrale realmente avvenuta nel 1940. Inoltre, mi preoccupava il fatto che già Giorgio Strehler ne avesse fatto l'oggetto di uno dei suoi spettacoli meno memorabili. Tuttavia, mi dicevo, se conosco Toni Servillo posso essere certo che tutto gli può interessare meno che misurarsi con qualcun altro, sia pure Strehler. Servillo è interessato a fare i propri spettacoli, non a istituire paragoni.

Mia moglie e io entriamo in sala a pochi minuti dall'inizio dello spettacolo ed ecco una sorpresa non del tutto piacevole: si tratta di una "scolastica", di uno spettacolo cioè destinato principalmente ai ragazzi delle scuole superiori. Una maschera mi avvisa che questa è, per l'esattezza, la prima scolastica su un totale previsto, qui al Grassi, di sessanta repliche. Offrire sessanta repliche a un solo spettacolo significa, di fatto, produrre lo spettacolo, farlo esistere. Poi, però, occorre riempire il teatro, e per riempirlo con sessanta repliche occorre portarci 24mila persone, che non sono uno scherzo anche per una macchina da guerra promozionale come quella del Piccolo, specie se teniamo conto che Jouvet è sconosciuto nelle scuole, dove si parla di teatro solo quando si studiano i tragici greci (ma solo al Classico), Shakespeare e Pirandello. Mentre la lezione di Jouvet riguarda la messinscena di un testo di Molière, e nemmeno dei più famosi: il Don Giovanni.

Perciò sono abbastanza preoccupato, e a ragione. Riuscirò a godermi lo spettacolo? Invece, ecco la sorpresa: dopo pochi istanti cala un silenzio perfetto, che durerà per tutti i settantacinque minuti dello spettacolo per rompersi un un grande, vigoroso applauso. Ce ne stiamo tutti, ragazzi e adulti, col fiato sospeso non soltanto per la bravura di Toni - perché non è per niente facile recitare il ruolo di uno che non sta recitando - ma per quello che accade sulla scena, dove la forza dell'attore riesce a far riaccadere quello che era accaduto nel 1940: il realizzarsi di un rapporto educativo. Non la sua rievocazione, affascinante ma sterile; non un pretesto per gigioneggiare sul Teatro e la sua presunta magia; ma proprio il riaccadere puntuale, esatto, di quel rapporto. Grazie a Servillo, certo, ma - imprevedibilmente - grazie soprattutto ai ragazzi in sala.

Servillo/Jouvet deve istruire una giovane attrice a sostenere la parte, molto difficile, di Donn'Elvira, sedotta e abbandonata da Don Giovanni. Elvira torna dall'uomo che le aveva distrutto la vita non per insultarlo ma perché, amandolo ancora ma di un amore nuovo, spirituale, teme per la sua salvezza, e perciò lo ammonisce, lo invita a ravvedersi. Sappiamo tutti che Don Giovanni se ne farà un baffo di questi avvertimenti, anzi, trova in questa nuova Elvira tutta dedita al Cielo ulteriori elementi di seduzione. La forte spiritualità incuriosisce il seduttore dalla mente prigioniera, lo attira, ma lui resta come cieco.

Il ruolo di Elvira è uno dei più difficili di tutto il repertorio teatrale, perciò il maestro Jouvet/Servillo è severissimo con la giovane attrice chiamata a sostenere quel ruolo. La tormenta, giunge perfino a umiliarla affinché lei porti tutta la sua tecnica ad annullarsi in una totale comprensione del personaggio: cuore, polmoni, corpo, voce, intelligenza, tutto. Il maestro è questo: un uomo che ti spinge a dare tutto, a consegnare tutto di te. Il rapporto educativo è una specie di incessante rito dell'offertorio.

Pensavo tra me: Dio non pretende da noi nulla che non sia già dentro il nostro cuore. Il padrone descritto nella parabola dei talenti è feroce, forse, ma ciò che chiede ai suoi servi è ciò che il cuore sa: "dare" vuol dire "dare tutto", e meno di tutto è come dire "niente". Così siamo fatti noi, per dare tutto e non per la medietà, e questo i ragazzi che sedevano con me a teatro lo capivano perfettamente.

All'uscita, ho sentito alcuni ragazzi commentare: «Avessimo noi un maestro come quello». Eppure Toni Servillo aveva messo in scena un maestro feroce, incontentabile, esigente fino alle lacrime, fino alla disperazione - no, non alla disperazione, perché l'alternativa della disperazione non si presenta mai alla mente della giovane attrice. Paura, magari, o angoscia: di non riuscire, ma soprattutto di deludere il maestro e quindi, in qualche modo, di perderlo. Ma il maestro, più è severo e più mostra di stimare profondamente la sua allieva. La tormenta perché sa quello che può (e quindi deve) dare, anche perché senza questo esercizio un essere umano resta incompiuto. I ragazzi hanno capito benissimo che una grande lezione - di teatro come di letteratura, di matematica o di biologia o di qualunque altra cosa - è sempre una lezione di umanità.

Per molto tempo ho vissuto nel pregiudizio che i ragazzi di oggi, abituati all'automazione, ai pulsanti, alle informazioni a portata di mano, fossero sempre più incapaci di sopportare i tempi richiesti da qualunque metodo: la parola "metodo" come tale indica che esiste una via da percorrere, del tempo da impiegare, della fatica da sostenere. Insomma: spazio e tempo. Ma forse la paura, la difficoltà a sopportare, non riguardano il tempo ma la sensazione che quel tempo sia vuoto. Non è vero che i giovani non vogliono essere educati, e non è vero che temono la fatica. I giovani, al contrario, desiderano questo rapporto. A teatro potevo percepire l'invidia di tutti quei ragazzi per la fortuna toccata a quella loro coetanea (o poco più) mentre il suo maestro la invitava a rompersi le ossa, a far violenza su di sé finché, liberatasi dall'ansia di "recitare bene", non avesse fatto suo, liberamente, il dramma di Elvira che, ormai fatta forte e intangibile dalla fede ritrovata, si rifà debole e supplicante per il bene dell'uomo che, viceversa, le fece tanto male.

Il problema dell'educatore sta in questo: nell'offrire un senso al tempo necessario per lo sviluppo della conoscenza. E nessuno può dare senso al tempo di un altro se non lo sperimenta per sé stesso. Questo implica una messa in gioco totale di sé. Lo fece Jouvet nel 1940, mentre Parigi cadeva sotto la dominazione nazista (e Molière diventava così una sorta di bandiera della libertà di un'intera nazione), lo fa Toni Servillo oggi, con l'umiltà dei grandi attori, facendo proprie oggi le parole di un uomo tanto diverso da lui (Servillo laico convinto, Jouvet cattolico di ferro) fino a trasformare una lezione di settantasei anni fa in un evento capace di ridestare nei giovani il giusto, mai cancellato desiderio di diventare grandi.