Una scena del film <em>Il signore delle mosche</em>.

Addio "buon selvaggio"...

Su un'isola, in un mondo senza adulti, dei bambini vogliono creare il loro piccolo "Stato". Eleggono il capo con una conchiglia e si danno delle regole. Ma quando la paura prende il sopravvento, diventano una tribù dove regna l'istinto
Luca Marcora

Tratto dall’omonimo romanzo di William Golding (1952), il film di Peter Brook, uno dei massimi registi teatrali viventi, è una pellicola che potrebbe essere semplicisticamente ricondotta al filone fantascientifico degli anni ’50-’60 dominato dal terrore dell’imminente e definitiva guerra atomica. Tuttavia le immagini di questo conflitto, premessa necessaria all’avvio delle vicende narrate, sono relegate a fotogrammi statici che fanno da sfondo ai titoli di testa, più simili a fotografie di repertorio di un giornale che a spettacolari ricostruzioni futuristiche. Così come l’unica altra traccia fantascientifica è data dalla spiegazione di cosa sia un conflitto atomico fatta da Piggy (Bombolo nella versione italiana) ai bambini più piccoli.
A Golding e Brook non interessa quindi inserirsi in un genere cinematografico specifico, quanto piuttosto analizzare il comportamento di questi bambini lasciati senza la guida degli adulti. Se all’inizio il tentativo è quello di emulare la democrazia dei paesi evoluti - viene eletto un capo per alzata di mano; può parlare solo chi ha in mano una conchiglia, simbolo dell’ordine e del diritto -, a prendere il sopravvento però è la paura irrazionale - in particolare verso un ignoto “mostro” che popola l’isola -, l’istintività che spinge una parte dei bambini a comportarsi sempre più in maniera animalesca, regredendo fino allo stato tribale dove una testa di maiale conficcata su un palo (il “signore delle mosche”, altro appellativo di Belzebù) diventa il fulcro della loro nuova società.
Brook guida lo spettatore in una discesa allucinata verso il buio della ragione, ottimamente sintetizzata nella sequenza notturna sulla spiaggia, dove i bambini si lasciano andare ad un vero e proprio sabba orrorifico in cui la ragione e chi ancora sceglie di rimanere razionale finiscono con il soccombere all’istintività più sfrenata. Ciò che sconvolge è che i protagonisti di questa follia non sono gli adulti, assenti per l’intero film, ma proprio quei bambini sempre indicati come simbolo di innocenza e purezza originale. Come nei migliori film di Stanley Kubrick, dei quali il regista in alcuni passaggi riesce ad eguagliare la potenza evocativa, il “mito del buon selvaggio” poi contaminato dalla società nella quale è costretto a vivere, viene sistematicamente negato: nell’uomo c’è qualcosa di inestirpabile che lo porta a corrompere e rovinare tutto ciò che fa, per quanto buone possano essere le sue opere. Come dimostra l’inizio del film: il giusto tentativo di creare una convivenza ordinata decade dopo pochissimo tempo, perché non ci sono adulti da seguire. E questo è proprio il fulcro della pellicola: senza autorità, senza educazione, l’uomo finisce con naufragare nella confusione e nella distruzione. Ma, se portiamo fino in fondo il pessimismo degli autori, rimane la domanda: in un mondo dove i “grandi” sono impegnati a farsi la guerra, esistono ancora degli adulti realmente capaci di educare?

Il signore delle mosche (Lord of the Flies, GB 1963)
di Peter Brook
DVD: Sinister Film