La locandina del film.

Tra golf e feste, un grido che buca l'ordinarietà

Un giovane tenta il suicidio per il rimorso di aver lasciato morire il fratello in mare. Tra il padre che vorrebbe tutto sotto controllo e la madre che non sa più amare, sarà un’amicizia ad aiutarlo...
Luca Marcora

Chi è la “gente comune”? Subito viene in mente una famiglia che tutte le mattine accompagna i figli a scuola e poi si reca al lavoro; viene in mente il vicino di casa, che vive la sua vita senza eccessi ma con dignità... Tutte figure appartenenti alla quotidianità. Eppure nel film di Redford, questa gente passa il tempo tra party e partite di golf, oppure ascoltando, mentre fa jogging, ottimi consigli per investire in borsa o migliorare la propria carriera - quando invece sta solo pensando come pianificare le vacanze di Natale, ovviamente all’estero come ogni anno. Ma allora in cosa questa gente può essere definita “comune”?
L’occhio del regista indugia, durante una noiosa festa, a cogliere frammenti di dialoghi, captati quasi per caso, in cui emerge un inquietante e vuoto formalismo; così quando Calvin, quasi con uno strappo al cerimoniale, racconta a un’amica le sue preoccupazioni per il figlio che sembra non essersi ancora del tutto ripreso dal tentato suicidio, subito la moglie lo rimprovera di aver sbagliato a mettere in mostra le loro questioni private. Dentro questa apparenza che serve a celare un vuoto, quello scavato nell’animo dal dolore - un’apparenza tanto invasiva che aveva addirittura spinto Beth, prima del funerale del figlio annegato, a imporre a Calvin come vestirsi, certo ultimo dei problemi quel giorno -, dentro questa continua recita il giovane Conrad non riesce a portare il peso di un responsabilità non sua, ma che la madre inconsciamente gli imputa solo perché è sopravvissuto al figlio preferito, mentre il padre lo vuole giustificare a priori per illudersi di nuovo di avere la situazione sotto controllo. Tutti i personaggi sono definiti in quanto imprigionati in un passato le cui schegge continuano ad emergere in rapidi flashback dall’apparenza di frammenti di un periodo idilliaco ormai perduto. Dov’è allora la via d’uscita?
In due inaspettate amicizie: quella con lo psicanalista che sa affrontare Conrad di petto per costringerlo ad uscire dall’accomodante illusione che tutto vada bene, un’illusione che lo sta logorando anche nel fisico (straordinaria in questo senso l’interpretazione estremamente nervosa di Hutton, premiata poi con l’Oscar), e quella con la compagna di scuola Jeaninne che lo accoglie così come è in quel momento, senza alcuna riserva.
Entrambi questi rapporti riportano Conrad al presente, all’unica dimensione in cui può svolgersi la vita. Per questo è interessante come Redford metta in piedi un film molto dialogato sfruttando fino in fondo la figura del campo-controcampo, costringendo tutti i personaggi a serrati faccia-a-faccia (in una linea che proseguirà fino ad oggi, basti pensare al suo recente Leoni per agnelli), come a dire che è solo nel continuo rapporto con qualcuno, adesso, nel presente, che si può recuperare il senso del proprio io, affrontando anche il dolore. Altrimenti il rischio è quello di alienarsi in un passato nostalgico ma ultimamente perduto. Perché in fondo, nonostante le partite di golf e i viaggi all’estero da pianificare, abbiamo bisogno tutti della stessa cosa: di essere amati ora. Per questo siamo tutti “gente comune”.

Gente comune (Ordinary People, USA 1980) di Robert Redford
con Donald Sutherland, Mary Tyler Moore, Timothy Hutton, Judd Hirsch, Elizabeth McGovern, M. Emmet Walsh, Dinah Manoff
DVD: Paramount