La locandina del film.

I SOLITI IGNOTI Il riso amaro che lascia aperta una domanda

Cinque disgraziati ricevono una soffiata su come fare il grande colpo al Monte di pietà, ma tutto quello che riusciranno a rubare sarà solo un piatto di pasta e ceci…
Luca Marcora

Il cinema italiano dell’immediato Dopoguerra aveva trovato nel Neorealismo la chiave per riscoprire quell’Italia reale che la propaganda fascista aveva invece saputo tenere ben nascosta: l’occhio neorealista aveva riscoperto la povera gente, si era spostato fuori dagli stabilimenti cinematografici per osservare le macerie lasciate dalla guerra e le speranze di un Paese che stava iniziando la sua più difficile rinascita. Per dirla con Calvino, il Neorealismo però «non fu una scuola. Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite». Come tale, anche quella grande stagione del cinema italiano cominciò presto a perdere la propria spinta dirompente, annacquandosi in farse leggere o in commedie sentimentali (il cosiddetto “neorealismo rosa”).
Semplificando, l’eredità originale di quel cinema, con la sua stretta adesione alla realtà, fu raccolta dalla commedia all’italiana il cui archetipo viene generalmente indicato nel capolavoro di Mario Monicelli I soliti ignoti. La vicenda tragicomica del furto al Monte di pietà è l’occasione per imbastire una galleria di personaggi memorabili: Peppe il pugile (Vittorio Gassman, che qui si inventa attore comico), Mario il ladro (Renato Salvadori), Tiberio il fotografo (Marcello Mastroianni) e Dante il maestro dello scasso (Totò), più tutti gli altri impagabili comprimari, si assumono il compito di offrire un graffiante catalogo di tipi della società di quegli anni.
Con la commedia all’italiana si ride dei propri difetti, delle proprie meschinità, come poi magistralmente mostrato dai personaggi cui presta il volto Alberto Sordi, grandissimo interprete delle piccolezze e delle vigliaccherie dell’italiano medio (da vedere Una vita difficile, il capolavoro di Dino Risi, 1961) o da Totò, autentica scheggia impazzita che manda in frantumi qualsiasi tipo di convenzionalità tanto da diventare, come sottolinea Gian Piero Brunetta, vero e proprio genere a sé stante nel vasto panorama del cinema di quegli anni.
Una satira di costume che accusa con l’arma della risata e allo stesso tempo fa intravedere la possibilità di diventare migliori. Ma il sogno durerà poco e con gli anni la risata diventerà sempre più amara: ancora Monicelli con l’importantissimo Amici miei (1975) mostrerà le estreme conseguenze dell’arte di arrangiarsi divenuta un tirare a campare senza scopo, dell’ironia pungente ridottasi a gratuito sberleffo, a “zingarata” che non si ferma più di fronte a nulla, nemmeno alla morte, estremo suggello di una generazione alle prese con una solitudine senza scampo. Amici miei può veramente essere indicato come “pietra tombale” di un genere che aveva saputo per anni riempire le sale cinematografiche.

Post Scriptum:
«Ma i personaggi di Alberto Sordi non rispecchiano tutta la società italiana! Non c’erano solo uomini meschini e vigliacchi! Perché quelle commedie si accaniscono sempre e solo sui lati negativi degli italiani? Non c’era proprio nessuna alternativa positiva da raccontare nell’Italia di quegli anni?» (così un amico dopo la visione di Una vita difficile. La domanda è ancora aperta…).

I soliti ignoti (Italia, 1958)
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di Mario Monicelli