<em>Re Lear</em>, di Peter Brook.

La pazza speranza del Re

Re Lear e il caos di un mondo che attende la salvezza. È lo scenario del fedele adattamento di Peter Brook, in un film che vuole riqualificare il rapporto travagliato tra Shakespeare e il cinema. Con una soluzione che nasce dall'esperienza teatrale...
Luca Marcora

Il rapporto tra William Shakespeare e il cinema ha origini antiche quanto la settima arte. È del 1898 la prima versione di un dramma shakespeariano per il grande schermo, appena tre anni dopo la presentazione della nuova invenzione dei fratelli Lumière: si tratta di un Macbeth con il famoso attore Johnston Forbes-Robertson nei panni del protagonista. Da quel momento, gli adattamenti cinematografici, e poi televisivi, delle opere del Bardo non si conteranno più: Laurence Olivier, Franco Zeffirelli, Joseph L. Mankiewicz, Orson Welles, Roman Polanski, Kenneth Branagh, sono solo alcuni dei registi più famosi che si sono cimentati con le opere di Shakespeare. Ma anche culture lontane da quella europea hanno saputo accogliere ed adattare la sua opera, a testimonianza dell’universalità del suo sguardo sull’uomo: per esempio, Sergei Bondarchuk o Grigorij Kozintsev in Russia, quest’ultimo autore di due celebri versioni di Amleto (1964) e di Re Lear (1971); fino a Akira Kurosawa che trasporta nel Giappone feudale la vicenda di Macbeth con Il trono di sangue (1957) e ancora quella di Re Lear con Ran (1985), il cui titolo significa letteralmente “caos”.

Caos, appunto. È proprio questo l’elemento che caratterizza anche il fedelissimo adattamento del Re Lear che Peter Brook realizza per il cinema nel 1971, riprendendo il suo storico allestimento andato in scena del 1962 proprio con la Royal Shakespeare Company e Paul Scofield nel ruolo del protagonista. Ma Brook non si limita a filmare una rappresentazione teatrale: con alle spalle già alcuni lungometraggi (come Il signore delle mosche del 1963) e avendo visto gli adattamenti shakespeariani “classici” di Welles e Olivier, il regista ragiona anche sull’identità e sul ruolo dell’immagine cinematografica: «Il problema di filmare Shakespeare è quello di trovare strade per trasferire meccanismi, stili e convenzioni così agilmente e abilmente sullo schermo allo stesso modo di come avvengono dentro i processi mentali riflessi dai versi sciolti elisabettiani sopra lo schermo della mente». Per questo la macchina da presa di Brook agisce muovendosi come un autentico personaggio: esaltando particolari, frammentando il flusso delle immagini con flash rapidissimi o dissolvenze ravvicinate, finanche ponendosi come interlocutore dei personaggi, che si rivolgono direttamente all’obiettivo quasi ad interpellare lo spettatore come parte attiva del dramma.

La desolazione del paesaggio dello Jutland danese, teatro delle riprese, riflette a tal punto l’aridità dei personaggi, la cui unica misura è la violenza e il cui unico scopo è il potere, che il critico del New Yorker Pauline Kael aveva proposto di re-intitolare il film La notte dei morti viventi, tanto aveva odiato le radicali scelte registiche di Brook. In un mondo «in costante stato di decomposizione» (sono parole di Charles Marowitz, assistente alla produzione del 1962), durante un’epoca non databile - forse un passato preistorico e pre-cristiano, o forse anche un futuro post-apocalisse -, l’uomo vive in modo selvaggio, spinto solo dai suoi istinti. Nulla è più evidente e tutto crolla, scivola verso l’inevitabile follia. Come accade allo stesso Lear, incalzato dalla morte che gli impone di rinunciare via via al potere, quindi all’autorità, poi all’amore delle figlie e persino alla propria ragione. «La sua follia», ha detto Alison Milbank durante il Meeting di Rimini del 2012, «tuttavia è piena di intuizioni e viene presentata come risposta adeguata a un mondo che è impazzito, nel quale i figli dominano e scacciano i genitori, e sono crollate le gerarchie che sostengono l’ordine morale». Un mondo che comunque continua ad attendere una salvezza. Forse invano come, secoli più tardi, i personaggi di Samuel Beckett, ai quali la produzione del 1962 è stata accostata sempre da Marowitz. Con un’unica certezza però: che questa salvezza non potrà mai provenire unicamente dalle mani dell’uomo.


Re Lear (King Lear, UK 1971) di Peter Brook
con Paul Scofield, Susan Engel, Irene Worth, Anne-Lise Gabold, Cyril Cusack, Tom Fleming, Ian Hogg, Søren Elung Jensen, Robert Langdon Lloyd, Jack MacGowran, Patrick Magee, Barry Stanton, Alan Webb
DVD Columbia Classics