La copertina del libro.

Quello che ci fa guardare avanti

Dobbiamo rassegnarci al fatto che «si stava meglio quando si stava peggio»? Mario Calabresi nel suo nuovo libro risponde con le storie di quegli «italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro» e di avere speranza
Maurizio Caverzan

La domanda era questa: quanto pensate che il vostro futuro e la vostra realizzazione dipendano da fattori esterni alla vostra volontà? I giovani americani hanno risposto per il 30 per cento, i francesi per il 50, gli italiani per il 70 per cento. Senso d’impotenza? Vittimismo? Scarsa fiducia nei propri talenti? Forse tutto insieme. Dunque, dobbiamo rassegnarci al fatto che «il futuro non è più quello di una volta» e che «si stava meglio quando si stava peggio», sentimenti dominanti di questi tempi grami? No. Innanzi tutto perché non è vero che negli anni Sessanta o Settanta si stava meglio: la mortalità infantile e l’analfabetismo erano più elevati, c’era il terrorismo, per telefonare si dovevano trovare i gettoni e una cabina funzionante... E poi no ancora, perché rassegnazione è sinonimo di sconfitta. I nostri padri, i nostri nonni, sì, magari vivevano peggio di noi ma avevano un’idea della vita, un sogno, un desiderio che oggi latitano. Nel suo libro controvento Mario Calabresi, direttore de La Stampa, parte da qui, dal desiderio che si è spento, come ha detto Giuseppe De Rita, presidente del Censis. E va alla ricerca di Cosa tiene accese le stelle, ovvero degli «italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro». E incontra il dottor Giuseppe Masera, oncologo infantile, che negli anni ’70 nascondeva la diagnosi ai suoi pazienti. Finché un giorno una ragazzina frugò nella sua cartella clinica e gli chiese cosa significa leucemia linfoblastica acuta? Il dottore spiegò dei globuli bianchi ammalati e delle cure sperimentali che stavano iniziando a funzionare: «Se tu vai avanti così, con questa voglia di vivere, allora ce la possiamo fare». Oggi quella ragazzina ha 53 anni. Poi Calabresi incontra Loris Degioanni, un ragazzo di Vinadio, un paesino del Piemonte che, con i primi risparmi, invece del motorino acquistò un Commodore Amiga e ora dirige una grande azienda nella Silicon Valley. Poi racconta di Amal Sadki, la tredicenne figlia di un cuoco e una colf marocchini che vivono a Taggia. Amal ha tutti nove in pagella, vuole fare il cardiochirurgo ed è stata scelta per rappresentare la Liguria alle celebrazioni dell’Unità d’Italia in Parlamento. Dice, scusandosi con i genitori, di non voler fare né la cuoca o la badante: «Certo, dipende da come va, bisogna essere pronti a ogni cosa, ma adesso la mia unica possibilità è lo studio, è l’unica carta che ho per costruirmi il futuro che vorrei».
Bisogna esser grati a Calabresi per Cosa tiene accese le stelle, una lettura che alimenta la speranza.

Mario Calabresi
Cosa tiene accese le stelle
Mondadori, € 17