Una scena del film.

Solo un'ora è felice

Il film di Sorrentino trionfa ai Golden Globe e corre per gli Oscar. Non un affresco della Dolce vita romana, ma il racconto della nostalgia di qualcosa che si desidera sempre. E che ci resta fedele. Ecco l'articolo da "Tracce" di gennaio
Fabrizio Sinisi

È tornato alla ribalta sbaragliando gli Efa, gli Oscar del cinema europeo, e conquistando la nomination per i Golden Globe. E per la fine di gennaio, attende di capire se arriverà la nomination agli Oscar veri, quelli hollywoodiani. Ma premi a parte, di motivi per vedersi (o rivedersi) La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino, ce ne sono tanti. Nonostante si porti con sé uno slogan che, pur avendo il fine di promuoverlo, lo riduce.
Non si tratta, come si è detto e scritto, di un film sulla Dolce vita romana dei giorni nostri: è innanzitutto un film sulla crisi. Anzi, se la crisi finanziaria non è che il sintomo di una crisi della persona, La grande bellezza è il film che forse con più drammaticità ficca lo sguardo nella tremenda emergenza umana del nostro tempo. Ed è curioso che i difetti che - con un livore forse eccessivo - i critici hanno rimproverato al film siano tutti problemi, alla lunga, rintracciabili nell’uomo d’oggi: mancanza di unità, episodi slegati e senza nesso, assenza di una vera vicenda narrativa, personaggi allusi e poco sviluppati, l’incapacità a che il rapporto con la bellezza possa superare l’impatto della semplice suggestione e diventare storia.

La miseria della vita. La mondanità romana, che a tanti è sembrato l’oggetto del film, non ne è che il “correlativo oggettivo”, la catena di fatti e situazioni che servono ad evocare una condizione esistenziale: in questo caso, la figurazione di una vita ridotta al suo trascinamento meccanico. Non è una rappresentazione di sfarzo, ma di miseria. Un mondo che di sé dice: «Siamo tutti sull’orlo della disperazione», non è un mondo afflitto dalla ricchezza. Al contrario, usa la ricchezza per distrarsi da un vivere disumano e doloroso. Non è la mondanità a poter diventare una trappola, ma la vita.
In questo mondo spaesato, confuso, straniero a se stesso, si muove il protagonista, Jep Gambardella, dandy benestante, uomo «condannato alla sensibilità», scrittore di un solo romanzo giovanile, L’apparato umano, un libro di cui tutti parlano ma di cui il film porta una sola citazione: «A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo. Schivo e distratto esso è stato. Per questa ragione, non abbiamo più tollerato la vita». L’unica opera di Jep si è quindi chiusa con una delusione e una ferita: l’amore non è stato fedele. Non che non ci fosse o non esistesse. Ma è stato «schivo e distratto»: non ha mantenuto la sua promessa.

Punto di snodo. Il film è privo di qualsiasi unità narrativa che non sia quella della presenza del suo protagonista: si può dire che il racconto del film sia lui stesso, l’evento dell’uomo che talvolta, quando guarda, vede. Il film ha però un suo punto di snodo, ed è l’ingresso del personaggio di Ramona (Sabrina Ferilli), una spogliarellista figlia di un vecchio amico di Jep: una donna che sembra avere il talento, fra tutti i personaggi incontrati finora, di possedere ancora un’intatta capacità di stupore. Ramona introduce nella vita di Jep un fattore nuovo, una fresca imprevedibilità di vita. Sarà lei a vedere il pianto di Jep al funerale del figlio dell’amica Viola (pianto che lui stesso si era proibito); sarà lei infine a portare Jep dalla noia di sé all’esperienza del dramma e del dolore reale, di uno sguardo non apatico, ma ferito.
Pochi sembrano essersi accorti che il titolo non è descrittivo, bensì “annunciativo”: l’oggetto descritto, nel film non appare mai. In un dialogo con una vecchissima suora in odore di santità che gli chiede perché, dopo il romanzo giovanile, non avesse più scritto un libro, Jep risponde: «Cercavo la grande bellezza, ma non l’ho trovata». Al che, la suora domanda: «Sa perché mangio sempre radici?». «No. Perché?», chiede Jep. E lei: «Perché le radici sono importanti». Sembrerebbe una battuta da cattiva new age, se il passaggio successivo non ci mostrasse il significato, ingenuo ma potente, di quel messaggio: Jep in barca (lui che non lasciava mai Roma), verso l’isola dove - ventenne - aveva vissuto il suo primo amore per una ragazza «di inesorabile bellezza». La sceneggiatura annota: «Lo stupore indefinibile della prima volta». È un momento definitivo, in cui la vita è accaduta, svelando la natura della sua promessa. E il “tornare alle radici” non è il regredire verso un passato, ma un recuperare quell’istante di purità totale, un risalire allo «stupore indefinibile» della prima volta. Il percorso di Jep sarà la verifica di quel presentimento di gioventù: la domanda di una fedeltà, di una felicità fedele alla vita. Una domanda sepolta forse sotto «il chiacchiericcio e il rumore», ma non per questo meno vera. Avevamo pensato che la bellezza del titolo fosse quella, straordinaria, di Roma. Scopriamo, invece, che non era quella la grande bellezza che il film annunciava: e che tutto non era che un segno, un indizio, il trasalimento di una bellezza più umana, più «grande», che si intuisce e di cui sveglia la nostalgia, e che non appare mai compiutamente.

Tesi smentita. Per questo, supponendo una bellezza impossibile da perseguire, riducibile a «un trucco», il film smentisce la sua stessa tesi: a cosa è dovuto infatti lo straordinario successo di pubblico, se non al fatto che la passione e la nostalgia per la bellezza non sono ancora sopite nel cuore degli uomini? Una tesi, a dire il vero, anch’essa minata dall’interno; e basterebbe, per accorgersene, andare a leggere la traduzione della canzone I lie di David Lang, che nella prima, bellissima scena del film viene cantata da un coro di donne sulla fontana del Gianicolo: «Sì, lui è vicino, la notte è fatta di molte ore / ed ognuna è più triste di quella successiva. / Solo una è felice: quando arriva il mio amato. / Qualcuno è arrivato, qualcuno sta bussando, / qualcuno chiama il mio nome. / Corro fuori a piedi nudi: / sì, è arrivato», come a testimoniare che la bellezza non è morta e l’attesa non è finita.