KERSNOVSKAJA
Il miracolo di una vita nel Gulag

Marta Dell’Asta

Gli esseri affamati e senza diritti che vivevano nel Gulag si creavano una propria «filosofia di sopravvivenza» che stabiliva cosa barattare, quali viltà era lecito commettere per aver salva la vita. L’esperienza quotidiana sembrava suggerire che la vita l’aveva salva chi riusciva a stare a galla a spese degli altri: i prepotenti, i furbi, gli egoisti, i delatori; mentre gli inetti, i deboli, gli ingenui finivano in fretta nella fossa comune.
L’esperienza di Evfrosinija Kersnovskaja, il cui eccezionale diario illustrato è appena uscito in traduzione italiana, offre lo spettacolo esaltante del bene che si afferma sul male. Certamente a carissimo prezzo, ma dimostrando pur sempre, e con potenza, che si poteva vivere con carità, onestà e purezza persino in mezzo all’umanità più sconcia, violenta e abbrutita del lager e del suo sottobosco.
La Kersnovskaja era stata arrestata in Bessarabia nel 1941; dopo la deportazione in Siberia, era stata condannata a dieci anni di campo di lavoro. In tutto avrebbe scontato quindici anni pieni di prove inverosimili: malattie, fame, esaurimento, botte, celle di rigore, incidenti, umiliazioni e tradimenti. Ma dal suo diario emerge una straordinaria baldanza, una speranza che continuamente si rigenera sorretta dal richiamo costante alla figura del padre: «Devo essere degna di papà». Il padre morto era per lei continua pietra di paragone, certezza della vita, modello ineguagliabile di ogni virtù e onestà.
Leggendo le sue peripezie ci si chiede come abbia fatto ad uscirne viva, e non soltanto viva, ma integra, perché il mondo che descrive non è solo affamato e brutale, ma cinico e corruttore. Certamente Evfrosinija aveva la tempra di una donna eccezionale, era una che diceva: «Le lacrime non portano sollievo. Non fanno che indebolire, falciare le gambe e annebbiare la vista. La necessità della lotta, al contrario, scuote, costringe a concentrare le energie e acuisce lo sguardo». E vedendo questa donna che chiede di andare a lavorare in miniera e ci lavora con l’energia di un uomo, può sembrare che sia questo il segreto della sua resistenza: la forza fisica, sorretta da una mente sveglia e da una bella cultura. In realtà, conoscendo il mondo dei lager, si capisce che la sua tempra fisica c’entrava solo a metà: quanti zek erculei si erano consumati come stoppini nel Gulag? Anche il caso aveva avuto il suo ruolo, naturalmente, perché sopravvivere nei lager staliniani dipendeva spesso da un incontro fortuito, da un aiuto insperato; e tuttavia sembra che la Kersnovskaja sfidasse apposta la sorte andandosi a cercare, con la sua intransigenza morale, ulteriori punizioni, pestaggi, celle di rigore. Poi però, questi «supplementi di pena» finivano chissà come per tradursi nella sua salvezza, il che conferma indirettamente quanto sia vera la massima di Solženicyn: «Chi crepa nei campi? Chi lecca la scodella, chi fa la corte all’infermiera, chi spiffera al compare», ossia chi pone al vertice dei suoi interessi la sopravvivenza fisica.
Il diario di Evfrosinija Kersnovskaja contiene numerosi esempi di questa verità, lei stessa è l’esempio più macroscopico: non aveva mai fatto nulla per salvarsi, si era spesa senza misura per gli altri, aveva donato spesso il proprio pane, eppure ne era uscita viva, anche perché la sua abnegazione insensata suscitava negli altri (certo non sempre, e neanche di frequente) una risposta speculare di carità gratuita. Il bene è comunicativo. E tenere più alla giustizia, alla verità, all’onore che alla vita aveva un effetto molto tangibile, aiutava a sopravvivere anche fisicamente.
Ci si potrebbe chiedere di quale natura fosse questo ideale morale che l’aveva preservata dal degrado. Negli anni di prigionia Evfrosinija si era sempre attenuta alla voce della sua coscienza, che per lei si incarnava negli insegnamenti di suo padre e nell’amore di sua madre; queste due figure (uno morto, l’altra vivente) erano come lo scudo che la proteggeva, alle loro preghiere si affidava totalmente e del loro sostegno spirituale sarebbe sempre stata certa: «Se ho sopportato tutto questo, lo devo a un miracolo, alla preghiera materna e all’intercessione di mio padre presso Dio». Questo spirito di profondissima appartenenza familiare era il nucleo della sua autocoscienza, il cuore della sua persona; la forza della paternità, quella umana e quella divina, la manteneva forte e libera. I suoi genitori incarnavano il buono della vita, ai suoi occhi erano l’amore stesso di Dio; il loro amore era il volto di Dio così come le si era mostrato. In questa coscienza era radicata e forte. Lei stessa ricorda che il vademecum della sua vita era stata la frase di un vecchio ucraino: «Be’ Frosja! Qualcuno prega forte per te…».
Certo la Kersnovskaja non parla mai di chiesa e di religione, non cerca i sacramenti, cita una sola volta i sacerdoti, per darne un giudizio poco lusinghiero: non era questa la forma che la interessava, né avrebbe potuto esserlo in quell’epoca e in quei luoghi. Ma la sua fede la portava dentro di sé, ne era totalmente plasmata, era parte inscindibile del suo modo di pensare, del suo approccio alle persone e alla vita; era talmente carne della sua carne che nei momenti cruciali non aveva bisogno di richiamarsi a precetti religiosi esterni per scegliere cosa fare, ma la risposta veniva dal suo intimo, ed era la risposta più umana e più cristiana al tempo stesso. Era stato così quando aveva avuto la tentazione (e la possibilità) di uccidere il suo carnefice e non lo aveva fatto; o quando aveva preso seriamente in considerazione la possibilità del suicidio.
«Il camion si mosse. Mi feci il segno della croce. D’istinto». Come le dettava il cuore.

Evfrosinija Kersnovskaja
Quanto vale un uomo

Bompiani
pp. 710 - € 26,50