La copertina del libro.

I figli (unici) del chiaro di luna

Il premio Nobel Mo Yan racconta il dramma del controllo delle nascite in Cina. La storia di una ginecologa che accetta la legge, ma cercherà tutta la vita quella redenzione che la letteratura non può dare, e che il cuore non può finire di attendere
Anna Leonardi

«La scrittura può essere una forma di riscatto ed è per questo che continuerò a scrivere. Soltanto una scrittura sincera può portare alla redenzione e continuerò a farlo con la massima sincerità». Così scrive Wan Zu, protagonista di Le Rane e alter ego dell’autore, il premio Nobel cinese Mo Yan, in una delle tante lettere che danno corpo a questo romanzo, dove vita e letteratura sono come il binario su cui si srotolano le vicende narrate. Non a caso, infatti, il personaggio di Wan Zu è un drammaturgo alle prese con la stesura di un’opera teatrale ispirata alla storia della zia, Wan Xin, una ginecologa che dagli anni Cinquanta ha svolto il proprio mestiere in una zona rurale della Repubblica popolare cinese. Con l’espediente di un racconto preparatorio alla sceneggiatura, Wan Zu ci mette al seguito di questa donna mentre sfreccia in bicicletta nelle campagne gelate, con gli abiti in disordine e la sigaretta in bocca. E intanto ci offre un distillato del pezzo più amaro della storia della Cina; quello segnato dalle politiche demografiche messe in atto da Mao a partire dalla metà degli anni Sessanta.

Quando Wan Xin, nel ’53, inizia a svolgere la sua professione per i quarantotto villaggi della sua comune popolare è una ventata d’aria fresca. Tutti la cercano e il suo arrivo nelle case delle partorienti è accolto come una benedizione. Strappa, letteralmente, le donne in travaglio dalle mani grezze delle mammane, intrappolate in vecchie superstizioni, e il suo cuore è capace di accogliere la vita che nasce con orgoglio e stupore ogni volta. Seguono gli anni della grande carestia, dove la fame provoca un collasso demografico. Ma nel ‘62, la terra, ostile per anni, riacquista il suo carattere benevolo: eccezionali raccolti di patate dolci saziano la popolazione. Wan Xin assistendo, con la sua equipe, a 2.868 parti, assiste al vero primo boom demografico dopo la Liberazione.

L’introduzione della legge sul figlio unico entra nel racconto senza ferite. Così come il Partito aveva incentivato le nascite, ora le pianifica per il “bene” della Cina. E Wan Xin fa dello slogan “Una coppia, un bambino” la sua nuova missione. Senza scrupolo, domanda, o dubbio. Da «dea della maternità», quale era diventata agli occhi dei contadini, diventa «un diavolo incarnato» da cui fuggire. «Non vi basta governare cielo e terra, ora volete interferire anche su come la gente fa i bambini?», urla un uomo durante uno spettacolo teatrale della comune popolare.

La gente si ribella, si nasconde; gli uomini non vogliono sottoporsi a vasectomia e le donne non vogliono essere sterilizzate. Ma Wan Xin non si arrende, con una tenacia sorprendente gira per i villaggi insieme a una squadra speciale, e dai megafoni montati sul pulmino ripete i ritornelli della nuova politica demografica. È a questo punto del romanzo che l’autore fa esplodere, una dopo l’altra, le rocambolesche vicende di tre donne «incinte illegalmente». Wang Renmei, moglie di Wan Zu, decisa a dare alla luce il suo secondo figlio, scapperà fino a farsi stanare da Wan Xin, che la convincerà ad abortire. La esile Wang Dan, nascosta in un pozzo per i mesi della gravidanza, partorirà la sua bambina su una zattera, mentre Wan Xin la insegue nel tentativo di farla abortire «perché una volta “sfornato”, sarebbe stato un essere umano, cittadino della Repubblica cinese». E infine, Geng Xiulian, madre di tre bambine, che, mentre viene condotta da Wan Xin alla stazione sanitaria, perderà la vita gettandosi nel fiume nel tentativo di salvare la sua creatura. Tra le pieghe dell’eroismo e della fragilità di queste tre donne, Mo Yan mette in scena la radicalità del desiderio di vita scritto dentro ogni essere umano. E nella feroce battaglia dove l’ideologia sembra vincere, fa emergere qualcosa di elementare e sacro insieme, come accade quando la madre di Wan Zu, nel tentativo di non far abortire Wang Renmei, lo implora: «La tessera del partito e la carriera sono più preziosi di tuo figlio? Il mondo esiste perché ci sono gli uomini».

Ma questo non è certo l’unico pregio del romanzo, che si trasforma nell’ultimo capitolo in un pezzo di teatro popolare (l’opera infine scritta dal protagonista Wan Zu). C’è un amore, una pietà verso i personaggi, anche quando sono malvagi. Dalla penna di Mo Yan, anche la spietata Wan Xin non esce mai come una caricatura del male. È una donna capace di accorrere per lo sbocciare di un vecchio susino dai fiori rossi, e che, a un certo punto della sua esistenza, senza che lo riesca nemmeno a dire, è tormentata da un bisogno di redenzione. Come in un’allucinazione, arriva a sentirsi perseguitata da milioni di rane. A torturarla, in realtà, non sono le rane di cui è piena l’umida campagna cinese, ma i bambini a cui le sue mani hanno impedito di nascere. Mo Yan gioca, infatti, sin dal titolo, sul doppio significato del fonema wa, che in cinese vuol dire sia “neonato” che “rana”.

Neanche l’indulgenza con cui il nipote Wan Zu la guarda riesce a toglierle quel macigno dal cuore: «Negli anni della vecchiaia, continuò a sentirsi colpevole di delitti gravissimi che non avevano possibilità di riscatto. Per me esagerava con i rimorsi, nessun altro all’epoca avrebbe potuto comportarsi meglio. Ma lei, affranta, rispondeva, “tu non capisci…”»
Wan Xin trascorrerà il resto della sua vita tentando di espiare la sua colpa. Attraverso le mani del marito, artista noto in tutta la regione per le sue statuine portafortuna per le donne in attesa, plasmerà nella creta i volti di tutti quei bambini che aveva fatto abortire. Quegli occhi, quei nasi, quelle guance è come se scaturissero da un luogo, da un pensiero infinitamente più grande del suo. Tanto che li chiamerà «figli del chiaro di luna».

Anche la vita di Wan Zu è percossa da un dolore costante; dalla debolezza con cui ha difeso la moglie e il suo secondogenito, si inanelleranno una serie di eventi drammatici che colpiranno altri innocenti. Ma è solo nell’ultima lettera del romanzo che Wan Zu si guarda con verità. Quel velo di disperazione che rendeva opaca la vita, sembra dissolversi. Nella lettera, indirizzata al letterato giapponese che, dall’inizio, lo ha incoraggiato a scrivere l’intera storia, Wan Zu domanda, come in una preghiera, il perdono e la pace che la letteratura non ha saputo dargli e che il cuore non può finire di attendere: «Signore, pensavo che la scrittura potesse essere una forma di redenzione, ma quando ho finito questo lavoro, il senso di colpa nel mio cuore è diventato ancora più pesante. Ogni bambino è unico e insostituibile. Potrà mai essere lavato il sangue che imbratta le mie mani? Potrà mai trovare redenzione la mia anima torturata dalla colpa? Signore, attendo la sua risposta».

Mo Yan
Le rane
Enaudi
€ 20,00 - pp.392