Reinhold Niebuhr.

Ironia realista cristiana

Luca Castellin racconta Reinhold Niebuhr, teologo e studioso di politica. Critico del marxismo, del pensiero liberale e diffidente dell'«incubo positivista». Un pensatore accolto sia a destra che sinistra nello scenario politico del secondo Novecento
Carlo Dignola

C’è un'immagine che starebbe bene sulla copertina del saggio di Luca G. Castellin: quella del presidente Barack Obama che nella sua recente visita a Roma passeggia all’interno del Colosseo e respira quelle antiche atmosfere imperiali macinate dalla storia con un’aria preoccupata.

Reinhold Niebuhr, teologo protestante e raffinato studioso di politica, è ancora poco conosciuto dalle nostre élite intellettuali, ma è un autore molto influente negli Stati Uniti: Time nel 1948 gli dedicò la copertina come “uomo dell’anno”, lo storico Arthur Schlesinger ha parlato della “lunga ombra” che ha steso sulla cultura e sulla politica americana della seconda parte del Novecento, Andrew J. Bachevich ha giudicato il suo The Irony of American History come «il più importante libro mai scritto sulla politica estera degli Stati Uniti».

Americano con venature socialiste, critico (ma consapevole) del marxismo e allo stesso tempo polemico con il pensiero liberale, Niebuhr è stato piuttosto un realista cristiano un po’ fuori contesto, temporale e spaziale. Che ha avuto una notevole influenza su entrambe le sponde della politica americana, se è vero che sia l’ex presidente Jimmy Carter che l’influente teologo e politologo cattolico Michael Novak si sono sentiti nel solco di una «piena fedeltà» al suo pensiero. In realtà, scrive Castellin, «né i neoconservatori né la sinistra sono stati in grado di cogliere fino in fondo» la sua eredità. Morto nel 1971, Niebuhr resta il pensatore che nel pieno della più ottimistica espansione dell’impero e della cultura americana sottolineava, dal cuore del mondo protestante, l’«inevitabile discrepanza tra i principi dell’etica cristiana e i mezzi del successo politico». È cioè, al tempo stesso, un autore realista e tragico, che resta diffidente verso l’«incubo positivista», compreso quello del positivismo giuridico. Più che a Hans Kelsen, insomma, è vicino a Winston Churchill che nel 1949, vinta la guerra, dopo aver ascoltato al Mit di Boston il preside della facoltà di Studi umanistici esaltare la capacità della scienza di guidare l'uomo verso radiosi fini di purificazione e di controllo dichiarò che sarebbe stato contento, «prima che ciò accada, d'esser morto».

Niebuhr non amava questi “figli della luce” (“virtuosi e stolti”) che periodicamente - anche oggi - rispuntano nella cultura americana, né i realisti cinici (“saggi e malvagi”) che abbondano invece nella Segreteria di Stato americana. E neppure gli “idealisti sofisticati” che piacciono tanto nella Vecchia Europa, i tecnici che «considerano il problema della costruzione delle comunità in termini puramente costituzionali perché non riconoscono o non comprendono i processi vitali che sottostanno alle forme costituzionali e dei quali queste sono soltanto strumenti o simboli».

Niebuhr rifiuta il contrattualismo sociale alla Hobbes, sta piuttosto con David Hume, con l’idea di una crescita “organica” della società, molto più attuale, oggi, del pensiero politico dell’Illuminismo classico. La sua visione pesca nell’antropologia cristiana, in particolare nel pessimismo agostiniano, quello che sa benissimo che la società civile e lo Stato non sono cosa buona in sé e che «la coesione non è possibile senza coercizione», e correlative ingiustizie.
Per l’America, uscita da due conflitti mondiali come prima potenza del pianeta, il nucleo della questione - secondo Niebuhr - è la presa di coscienza che in un mondo di dinamiche globali l’«interesse nazionale» non è più l’interesse reale degli americani, così come sul piano antropologico l’egoismo non è una strategia ultimamente vincente. Proprio un realismo a 360 gradi deve portare la nazione a “trascendere” se stessa se vuole assumere davvero il ruolo a cui la storia la sta chiamando, anche combattendo entro di sé le spinte settarie e paradossalmente anarcoidi del capitalismo, che resta la sua spina dorsale.

Come gli individui, le nazioni per Niebuhr subiscono delle tentazioni, devono imparare a «limitare l’istinto del potere». Già sessant’anni fa scriveva che il successo degli Stati Uniti nello scenario mondiale dipende non solo dal potere economico e militare, ma dalla sua abilità nel costruire «una comunità con molte altre nazioni, nonostante i rischi creati da una parte dall’orgoglio del potere e dall’altra dall’invidia dei deboli»; che gli americani devono sviluppare la saggezza dei forti, costruendo forme di cooperazione con Russia e Cina e con una “nuova Europa”.
È un teologo, Niebuhr (a lungo studiato da Luigi Giussani), ma in campo politico è un pensatore laico, convinto che «le idee e le tradizioni religiose non possono essere direttamente coinvolte nell’organizzazione delle comunità umane» e tuttavia rimangono «le fonti ultime degli standard morali da cui derivano i principi politici». Non interessandogli una teologia politica può invocare anche una «demitizzazione della democrazia», una sua salutare “desacralizzazione” anti-ideologica. Ed esercitare, contro la tracotanza del “credo comunista” e di quello “liberal-borghese”, una cristiana ironia che non sarebbe dispiaciuta ad Andreotti.

Luca G. Castellin
Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale
Rubbettino,
pp. 180 - € 16