Stefan Zweig.

Irene «nessuno ti ha condannata»

Una donna della borghesia tradisce il marito per noia. Ricattata dalla paura si accorge che quello che cercava era un'avventura e non un amante. Nel libro di Zweig il colpo di scena finale svelerà quella misericordia che libera la coppia da ogni accusa
Flora Crescini

Paura è il titolo del breve romanzo di St. Zweig, pubblicato da Adelphi. È la storia di una donna borghese, Irene, che ha una relazione extraconiugale. Si è data all’amante senza sentirne il bisogno e senza provarne un vero desiderio, semplicemente perché «adagiata con soddisfatta indolenza in quella confortevole quotidianità priva di scosse, peculiare della buona borghesia». Uscendo dalla casa dell’amante viene ricattata da una donna, che si presenta come fidanzata.
Già «gli ultimi istanti accanto a lui erano avvelenati dall’inquietudine crescente» e il ricatto non fa altro che amplificare la paura. Inizialmente è la paura di infrangere il codice della rispettabilità borghese.
Irene vive nell’incubo del ricatto e nel timore di essere scoperta. Ma, braccata da questo demone, comincia ad accorgersi di aspetti più profondi: l’intima incapacità di legarsi sul serio, la tentazione - profondamente borghese - di cercare un ordine anche nell’adulterio, il disgusto «per la vacua operosità della gente inoperosa» che vive delle relazioni come si vive delle chiacchiere: «Vivevano nella menzogna come nel loro elemento». Di colpo, la donna comprende quanto sia ricca la vita e «tutto ciò che era stato». Il suo tradimento è «già caduto nell’oblio, non era un delitto ascrivibile a lei, bensì a un’altra donna che lei stessa non comprendeva e che nemmeno riusciva a ricordare», e qualsiasi cosa, anche la più estranea, le è affine.
«La sazietà non è meno tormentosa della fame» e «una vita che mostra solo l’aspetto carezzevole del mondo» suscita la curiosità dell’avventura. Come anche il procedere nella vita da estranei «con gli occhi semichiusi», senza accorgersi del reale, figli compresi.
Ma la paura non smette di fare il suo lavoro. Il marito sarà capace di comprendere che lei non ha amato un uomo, bensì l’avventura? Il peso dell’ansia diventa una stanchezza quasi dolorosa e la donna non riesce a parlare. Per di più, i ricatti continuano. Alla donna pare di essere in un tunnel che non presenta vie d’uscita.
La storia procede su questo filo narrativo, teso con straordinaria bravura. L’aspetto geniale del romanzo, però, è il problema del giudizio e del castigo: la donna è sempre sul punto di confessare la colpa al marito -che è giudice-, per porre fine al ricatto e per liberarsi dal fardello della colpa. La paura, però, le impedisce di parlare. Anche quando il marito la incoraggia a farlo. Tornando da un processo e, parlandone alla moglie, dice che «la paura è peggio del castigo; perché alla fine il castigo è qualcosa di determinato e, sia pesante o meno, è sempre meglio della spaventosa incertezza, della tremenda tensione che si prolunga all’infinito». Tuttavia un potere maligno si impossessa di qualsiasi colpevole, un’incomprensibile resistenza e la paura. Il giudice è sempre immaginato come un nemico, mentre potrebbe essere proprio lui ad aiutare.
Se la resistenza può essere vinta ad un processo, di fronte a un giudice che, in fondo, è un estraneo, più difficilmente può essere vinta «al cospetto di coloro cui ci si sente legati». Paura e vergogna impediscono la confessione.
Così Irene, braccata dall’insopportabile angoscia, pensa di farla finita, acquistando della morfina in farmacia. E qui avviene quello che le recensioni hanno definito un coup de théatre; il marito, complice del ricatto, che da giorni la segue, la ferma e l’accompagna a casa. E deve, per amore della moglie, correggere il suo atteggiamento di giudice: non si può indurre alla confessione, senza che la libertà sia salva.
Correggendosi, svela, però, le vere ragioni del giudizio: «Pensavo sempre di vederti tornare… io volevo che tu tornassi… e ho sempre fatto intendere che ero pronto… che non desideravo altro». E queste sembrano le parole di un dio: quel coup de théatre che si attende non sulla scena, ma nella vita che si sgretola sulla propria miseria.
A questo punto, la donna può piangere e sentirsi perdonata: «Era lì distesa con gli occhi chiusi a godere in modo più profondo tutto quanto costituiva la sua vita e adesso anche la sua felicità. Dentro di sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso».
La storia narrata da Zweig, scritta tremendamente bene, è un'esemplificazione drammatica della preghiera quaresimale della Chiesa ambrosiana: «La vita nostra sospira nell’angoscia, ma non si corregge il nostro agire. Se aspetti, Signore, non ci pentiamo; se punisci, non resistiamo. Tendi la mano a noi che siamo caduti». Del resto, anche Gesù dice alla donna colta in flagrante adulterio «nessuno ti ha condannata», mostrando che il vero volto del giudizio non è l’accusa, bensì l’invito a tornare a casa e non peccare più. Un nuovo inizio.

Stefan Zweig
Paura
Adelphi
pp. 115 - € 10