La copertina del libro.

«Il mio regno non è di quaggiù»

Esce l'ultimo libro del filosofo Massimo Borghesi, con a tema la distinzione tra "fede e spada" e i rischi di una teologia politica. Una riflessione che va dal “De civitate Dei” di sant'Agostino al Concilio Vaticano II, fino ai giorni nostri
Alessandro Banfi

Sembra a volte che la società secolarizzata si sia lasciata alle spalle la questione emersa nel drammatico dialogo fra Pilato e Gesù Cristo, in una delle scene finali della sua vita terrena. E invece, in un certo senso, tutto torna lì. Tutta la storia, anche del pensiero politico occidentale, prende le mosse da quelle parole. Dice Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Parole che «segnano una distinzione fra la fede e la spada, che nessuna teologia politica può eliminare».

Da questa riflessione, potente anche esteticamente, prende le mosse l'ultima fatica di Massimo Borghesi che dedica un saggio ricchissimo, e pieno di spunti fecondi, proprio al tema della teologia politica. L'autore da cui scatta l'analisi di Borghesi è sant'Agostino e in particolare l'Agostino del De civitate Dei, scritto anche come risposta alle critiche dei pagani dopo il sacco di Roma da parte dei Goti guidati da Alarico nel 410 dopo Cristo. Un sant'Agostino riscoperto a fondo da don Giacomo Tantardini, alla cui memoria è dedicato il libro.

I padri della Chiesa nei primi quattro secoli hanno chiara la distinzione tra Chiesa e Stato, cristianesimo e mondo. Il Concilio Vaticano II «nel ritorno all'orizzonte patristico» dialoga con la modernità, riprendendo questa concezione originaria. Ma Borghesi legge nella tensione fra chi favorisce una teologia della politica (come Agostino) e chi invece vuole una teologia politica la costante di tutto il pensiero politico europeo-occidentale fino ai nostri giorni. «La teologia politica», spiega «rappresenta una forma di secolarizzazione», arrivando fino al pensiero di Carl Schmitt (una forma di teomanicheismo, una teopolitica gnostica, secondo la definizione di Eric Voegelin). Proprio per Schmitt, infatti, «non c'è teologia politica se non c'è nemico». Viene subito da pensare quanto bisogno del nemico c'è nel pensiero politico contemporaneo...

Brillanti sono i collegamenti attraverso la storia e il pensiero che Borghesi stabilisce sulla base di una solida e attenta ricerca. Mostrando come anche l'insegnamento dei Papi sia in linea con questa lettura. Dal Giovanni Paolo II che non approva l'invasione dell'Iraq nella logica teocon dello scontro tra civiltà dopo l'11 settembre, fino al Benedetto XVI che condanna il “messianismo” in politica, come nel discorso di Ratisbona: «Il cristianesimo si è sempre impegnato a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell'etica».

Massimo Borghesi
Critica della teologia politica
Marietti
pp. 350 - € 28