<em>Pedagogia del dolore innocente</em>,<br> don Carlo Gnocchi.

Il tesoro inestimabile di don Carlo

La ritirata di Russia e poi, tornato a Milano, le vedove e gli orfani. Don Gnocchi vede la sua vocazione davanti a questo "dolore innocente", che è forse il dono più prezioso. Perché c'è sempre qualcuno a cui «offrire la propria sofferenza»
Stefano Zurlo

Le teorie, quando un bambino si contorce e si dispera, servono a poco. Don Carlo Gnocchi lo sa bene e lo scrive all’inizio di questo testo, suggestivo e coraggioso: «Quante volte infatti, dinanzi alla pena di un bimbo morente o sofferente, avviene di raccogliere espressioni come questa: "Mio Dio perché fai soffrire questo innocente, perché non colpisci me che sono peccatore?"».

No, è un’altra la strada da percorrere e lui se ne era già accorto in guerra, il giorno in cui si trovò faccia a faccia con un alpino ormai alla fine: quel poveretto era Cristo. Sì, la sofferenza ha il potere di far affiorare in mezzo a noi e alle nostre miserie il volto di Cristo. Cristo che non ha fatto proclami e discorsi, ma si è caricato sulle spalle il dolore, tutto il dolore dell’uomo. Quello innocente. E pure quello colpevole. Racconta don Carlo che in quel momento cominciò «a scoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore».

L’unica vera pedagogia è quella ricerca, quella fatica, quella scoperta. La sofferenza resta un nemico e del resto pure Gesù si mette a piangere davanti al cadavere di Lazzaro. Ma chi scruta l’uomo fino in fondo sa che quel carico di fatica scandalosa, ancora di più davanti a un fanciullo aggredito dalla malattia, può servire a costruire un mondo nuovo, può diventare energia positiva, può ribaltare la realtà. L’unica risposta adeguata - scrive l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, in un breve saggio in coda al volume - «non è una spiegazione, ma una presenza».

Un giorno don Gnocchi rompe il tabù e si rivolge a Marco, uno dei suoi mutilatini, ponendogli la domanda delle domande: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite o ti fanno piangere, a chi pensi?». La risposta, scioccante e però comune, facile, quasi scontata, è in due parole: «A nessuno». Don Carlo desolato insiste: «Ma tu non credi che ci sia qualcuno al quale forse tu potresti offrire il tuo dolore...?». Come un grande inviato, don Gnocchi cattura la replica senza speranza, che poi è quella che troviamo in bocca al 99 per cento delle persone: «Marco fissò nel vuoto il viso devastato, guardando con l’unico occhio stranito, e poi, scuotendo lentamente la testa, disse: "Non capisco"».

Cosa c’è da capire? Solo l’autore del libro non si arrende e rilancia a modo suo: «Fu in quel momento che io ebbi la precisa, quasi materiale sensazione di una immensa, irreparabile sciagura: della perdita di un tesoro, più prezioso di un quadro d’autore, o di un diamante di inestimabile valore». Il dolore innocente. Quello che può diventare «un indispensabile, preziosissimo complemento alla passione di Cristo e della Chiesa».

Dopo la guerra, i morti, i congelati nella ritirata di Russia, don Carlo torna a Milano. Provato, turbato, stremato. Ha rischiato, ha già dato, ha sofferto, potrebbe riprendere la comoda vita di prima. Invece no: dentro il non senso e l’orrore di quella mattanza spaventosa vede, dove gli altri scorgono solo il limite dell’uomo e il silenzio del cielo, la propria vocazione. Abbraccia l’angoscia di quei soldati che lasciano a casa vedove e orfani, e si dedica ai mutilatini, edificando un’opera grandiosa di bene e di civiltà. È la scommessa del cristianesimo: un lembo di azzurro nel nero più nero.

Carlo Gnocchi
Pedagogia del dolore innocente
San Paolo
pp. 144 - € 10