"D'iO" di Dargen D'Amico.

«Una risposta gigante da qualche parte»

Nell'ultimo disco dell'artista milanese «di musica ce n'è». Ma non ridotta all'osso come in tanto altro rap italiano. Qui accompagna una scrittura che stravolge i luoghi comuni, e che fa di D'Amico uno strano incrocio tra un rapper e un cantuatore
Walter Muto

Un dato di fatto: a parte gli artisti che escono dalle trasmissioni televisive e le grandi star che annoverano migliaia di fans da epoche passate, oggi l’unico fenomeno che affilia, crea community e di conseguenza vende, è il rap. Sì, anche in Italia. La chiave è molto semplice: la musica, quando è presente, è ridotta all’osso, all’essenziale, spesso a pura base ritmica, con l’aggiunta di qualche accordo al minimo sindacale, e tutto si incentra sulla parola. Amori perlopiù difficili o finiti, denuncia sociale, talvolta politica: i temi della vita vanno ad implementare le rime, spessissimo infarcite di doppi sensi, o per meglio dire, di giochi di parole che hanno come sfondo la realtà quotidiana e cercano il numero ad effetto, il number, per l’appunto, come dicono gli americani.

Non so se esistano già studi linguistici e semantici su questo fenomeno, probabilmente sì. Noi partiamo dalla curiosità personale, alimentata da alcuni post su Facebook e da un titolo decisamente accattivante: D’iO. Particolarmente riuscito, il titolo di questo nuovo album di Dargen D’Amico mette l’accento su una ambivalenza: quella fra la persona e, in qualche modo forse un po’ lontano, la trascendenza. La scrittura di Dargen D’Amico (all’anagrafe Jacopo) ha radici lontane, come la sua esperienza, maturata insieme a quelli che sarebbero poi diventati i Club Dogo e Gue Pequeno, ma oggi come oggi se ne distacca per una certa maturità. E non solo per il viso barbuto e l’aspetto, diciamo, adeguato ai suoi 35 anni, ma per i temi trattati, che vanno dall’omaggio alla propria città in Amo Milano, fino a tratti esistenzialisti in Modigliani, per arrivare alle domande profonde di Essere non è da me.

Innanzitutto, a differenza di tanto altro rap, qui di musica ce n’è. Diciamo che Dargen D’Amico è uno strano incrocio fra un rapper e un cantautore. È vero che di ritornelli cantati ce ne sono un po’ dappertutto, ma mentre generalmente sono i ritornelli a sembrare fuori posto, qui la ricchezza del suono e degli arrangiamenti, insieme ad una fervida inventiva melodica, fa quasi rimpiangere che anche le strofe non siano cantate.

Ho scoperto che la maniera di pronunciare e di “portare” le parole del rap si chiama flow. Bene, il flow di Dargen D’Amico è dinoccolato, non agitato ed al tempo stesso coinvolgente. L’universo non muore mai e La mia generazione dipingono in modo un po’ manieristico le domande di una età che stenta a trovare risposte: «Abbiamo perso il sentiero/ le stelle sono là/ le stelle sono l’acne del cielo/ è finito il tempo per parlare/ la mia generazione non ha futuro/ ma ha ancora voglia di ballare/ quindi sposta i mobili contro il muro».

Diciamo che il suo rapporto con la religione, o meglio, con i simboli religiosi svuotati della carne, non è il massimo (già in un brano dell’album precedente, È già, in cui cantava Enrico Ruggeri, una serie di luoghi comuni venivano presi e stravolti di doppi sensi nelle rime che condannavano certi comportamenti). Ma la maniera di scrivere di questo autore è esattamente quella, e la si rintraccia anche nei brani più assurdi e stralunati di questo nuovo album, come La lobby dei semafori o Amico immaginario. Presente anche la cosiddetta “denuncia sociale”, in Crassi, naturalmente allusione e gioco di parole con il cognome di un illustre uomo politico italiano, primo emblema di corruzione nell’immaginario italiano.

Ma c’è qualcosa di interessante, soprattutto nelle liriche, qualcosa che non lascia tranquilli. Bisogna accettare la sfida di entrare nel periodare ed ascoltare, tentare l’accesso al mondo di questo artista, come lui sta cercando di entrare nel nostro e farci riflettere. Lo si può ascoltare e poi giudicare, distaccarsi, approvare, dissentire. Un paio di flash finali. Da Io quello che credo: «Io quello che credo è che non si dovrebbe restare da soli per sempre/ io quello che credo è che sia tutto vero solo che non tutto si spiega (…) / io quello che credo è che da qualche parte ci sia una risposta gigante». Da Essere non è da me: «Avere e avere sbagliato/ non fanno di me un uomo sbagliato/ ma fanno di me un uomo/ se avere è sbagliato, essere non è da meno/ essere non è da me».

Insomma, per chiudere con una rima originale, non se ne abbiano a male i lettori-rapper, «un tipo forse molto distante/ ma non per questo certo meno interessante». Buon ascolto.

Dargen D’Amico
D’iO
Universal - 2015