La scelta di Abramo e le sfide del presente

Pagina Uno
Julián Carrón, Joseph H.H. Weiler e Monica Maggioni

Appunti dal dialogo di Julián Carrón, Joseph H.H. Weiler e Monica Maggioni al Meeting per l’amicizia fra i popoli. Rimini, 24 agosto 2015

Monica Maggioni. Buonasera a tutti. Un po’ di emozione c’è per tutti stasera, perché cerchiamo di attraversare insieme un argomento complesso. Un titolo come «La scelta di Abramo e le sfide del presente». E, soprattutto, cerchiamo di farlo in un modo particolare, un modo che è nato da una conversazione tra tre amici che hanno deciso di accettare una sfida davvero grande: sovvertire una modalità di racconto tenendo, però, al centro le cose che si dicono, si pensano e si sentono. Allora, proviamo a fare questa strada insieme. E quindi, cominciamo a raccontare.


ABRAMO E LA NASCITA DELL’IO

Prima voce. «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3).

Seconda voce. «Balza agli occhi qui come il progetto più realistico sulla vita di Abramo sia non il suo, ma il progetto di un Altro. E questo, se si accetta nella sua manifestazione iniziale, lo si deve poi verificare nel tempo. Così Abramo proverà la familiarità con quella Presenza, che lo ha travolto e trascinato lontano da casa, nell’episodio del querceto di Mamre (Gen 18) in cui l’Essere misterioso sarà come ospite da nutrire e servire, all’ombra dell’albero “nell’ora più calda del giorno”» (L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Bur, Milano 2007, p. 24).

Terza voce. «L’idea era che un essere umano deve diventare reale prima che possa aspettarsi di ricevere un qualche messaggio da sovraumano; cioè, si deve parlare con la propria voce (non una di quelle voci prese in prestito), si deve esprimere i propri desideri reali (non ciò che immagina di desiderare), tanto nel bene quanto nel male stesso, senza nessuna maschera, nessun velo o personaggio». «Come possono incontrarci faccia a faccia gli dei fino a quando non avremo il volto scoperto?» (C.S. Lewis, Lettera a un lettore).

Maggioni. Abbiamo sentito le parole della Genesi, di don Giussani e di Lewis. Joseph Weiler, partiamo da lì: da questo Abramo in rapporto alla nascita dell’io.

Joseph H.H. Weiler. Per me l’avvenimento di Abramo, o Abrahamo, rappresenta una rivoluzione. O meglio, tre rivoluzioni. Parto dalla prima. Non sono d’accordo, don Carrón, sul fatto che è la prima volta che Dio interviene nella storia. C’è stato il diluvio, e Dio ha parlato con Adamo. Parla con Caino, e gli dice: «Il sangue di tuo fratello mi urla dalla terra». E parla con noi. Dio ha già parlato. Ma la prima rivoluzione in Abramo è nella natura della conversazione tra Dio e l’uomo. E per me la parola chiave è Alleanza. Dio offre - non impone - ad Abramo un’Alleanza. Ed è la prima Alleanza. E perché insisto che l’Alleanza è così importante? Perché in un’Alleanza ci sono due parti: e tutte e due le parti sono sovrane. «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre» non è un comando, è una proposta: «Ti propongo di andar via, ti propongo una terra promessa: ma sta a te decidere». Questa natura dell’Alleanza che responsabilizza l’altro, in cui l’altro deve prendere la propria responsabilità, non è un’obbedienza: è l’accettazione di un uomo creato a immagine di Dio e che ha la possibilità di dire anche «no» a Dio. E infatti quando Dio dice ad Abramo: «Vattene dal tuo paese», aspetta con ansia per vedere come sarà la risposta di Abramo. Questa è la prima rivoluzione: non il fatto di parlare con l’uomo, ma la natura della conversazione fra due sovrani.

Maggioni. C’è già un passo più in là, quindi.

Julián Carrón. è proprio questo io capace di rispondere che emerge per la prima volta con Abramo. Perché quel rapporto di familiarità che Dio aveva cominciato con l’uomo, creandolo, si era interrotto: questi non aveva più accettato la relazione con il suo Creatore. Ad un certo punto, Dio ha perciò voluto entrare di nuovo in rapporto con quell’uomo che si era allontanato da Lui. Essendo ben consapevole, per dir così, della necessità del rapporto riconosciuto e vissuto con Lui per il compiuto attuarsi dell’uomo, Dio ha preso una iniziativa imprevedibile: ha voluto intervenire di nuovo, entrando nella storia e chiamando un uomo, Abramo, per risvegliare il suo io, in un certo senso per farlo nascere. È la proposta dell’Alleanza che, infatti, fa sorgere un io in grado di rispondere a Dio, cosciente della propria irriducibile singolarità e del proprio compito nella storia; è la domanda di un Tu che genera un io come capacità di risposta. È proprio questo che stupisce nella vicenda di Abramo: come ha detto il professore Giorgio Buccellati, per i mesopotamici non era possibile dare del tu al fato, al destino. Ma che l’io sia costitutivamente rapporto con un tu, come ci insegna la storia dell’Alleanza, è ciò che possiamo constatare osservando l’esperienza umana elementare di ciascuno, senza dover immaginare che cosa capitava al tempo di Abramo. Lo dice bene questa espressione di un cantante italiano: «Non sono quando non ci sei, e resto solo coi pensieri miei» (Vorrei, parole e musica F. Guccini). Senza un tu la vita viene meno e tutto diventa prevedibile. Senza Alleanza, senza dialogo con quel Tu, non c’è in fondo più niente di imprevisto, ci ritroviamo incastrati nel prevedibile, come è accaduto prima ai mesopotamici e poi ai greci. Dobbiamo allora accontentarci, come diceva Eschilo: «Nessun mortale deve fomentare pensieri che superano la sua condizione mortale». Invece, chiamandolo, Dio fa emergere in Abramo tutto il suo desiderio d’uomo, affinché egli possa assecondare la proposta dell’Alleanza percependone fin dall’inizio la convenienza umana. E questo non è, prima di tutto, una questione etica: riguarda la natura stessa dell’io. Senza quel Tu, senza quella Alleanza, l’io non è propriamente io.

Weiler. Sono d’accordo. E secondo me bisognerebbe interpretare così anche la Terra promessa. Non è soltanto un territorio: la «Terra promessa» è un altro tipo di vita, un altro tipo di responsabilità, un altro tipo di relazioni tra esseri umani ed esseri umani e tra esseri umani e Dio. Possiamo passare alle altre due rivoluzioni?

Maggioni. Certo! Anche perché sono le rivoluzioni che questa figura di Abramo rappresenta: è l’immagine della rottura del rapporto. Da lì comincia sicuramente un altro tipo di percorso: lo si vede nella mostra, lo si capisce leggendo i testi.

Weiler. Come ha detto Carrón, il protagonista della prima rivoluzione non è Abramo: è Dio, che offre una relazione quasi di parità. «Vi invito!». Come diceva Giovanni Paolo II, «si propone, non si impone». Ma ecco le altre rivoluzioni. Dio ha deciso di distruggere Sodoma e Gomorra. Leggo: «Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto». È una proposta rivoluzionaria perché fino a questo punto Dio non ha istruito Abramo, non gli ha dato la legge, non gli ha insegnato la moralità. La moralità, la sensibilità etica, è radicata nella ragione che fa parte della natura umana. Questo è rivoluzionario: quattromila anni prima di Immanuel Kant, si trova già una interiorità che ha la sensibilità etica di agire con giustizia senza essere istruita nemmeno da Dio. È qualcosa che fa parte dell’essere umano. Questa è la seconda rivoluzione. La terza è Abramo alla grande. Perché Dio dice: «Vado a distruggere Sodoma e Gomorra». E Abramo non risponde: «Sì, Signore». Abramo chiede: «Come è possibile? E se ci fossero a Sodoma e Gomorra anche cinquanta innocenti? Non è possibile che tu, Dio, il giudice di tutta la terra, non faccia tu stesso giustizia distruggendo gli innocenti con i colpevoli...». Perché questa cosa è rivoluzionaria? Perché fino a questo punto, se una cosa la diceva Dio, significava che era di per sé giusta. Invece qui è la rivoluzione copernicana della giustizia: «Se non è giusto, non può essere da Dio». Questo non accadeva prima nella nostra civiltà. E qui è Abramo alla grande...

Carrón. Perché per la prima volta sulla scena del mondo accade qualcosa che non era mai avvenuto prima? Questa è la domanda a cui occorre rispondere. Questa novità accade come conseguenza di un avvenimento storico, dell’entrata del Mistero nella storia, come accennavo prima. L’uomo, nella sua struttura costitutiva, esisteva già prima di Abramo; ma, come dice don Giussani, quello che è nell’uomo come struttura, in potenza, emerge e si attua solo in rapporto a una provocazione. C’era dunque bisogno di una provocazione adeguata perché venisse a galla tutta la sete di giustizia che c’era nell’uomo Abramo ed egli interloquisse con Dio chiedendoGli ragione delle sue mosse. Occorreva anzitutto che emergesse interamente quella capacità dell’io che appartiene, come potenzialità, alla struttura umana. Ma a questo scopo era necessario un tu, l’intervento di quel Tu. Come vediamo nell’esperienza del bambino, che ha bisogno di un tu - quello della madre - perché si desti la coscienza di sé. Senza tu non c’è l’io.

Weiler. Io ho questa idea, fantasiosa: che Dio, prima di dire: «Abramo, sto per distruggere Sodoma e Gomorra», ha deciso di metterlo alla prova. Dio aspetta e pensa: «Vediamo cosa dirà Abramo. Se accetta, se dirà: “Sì, sì. Tu lo dici: fai pure!”». E invece Abramo, audace, ribatte: «Come è possibile che Tu, Dio, il giudice di tutta la terra, non faccia tu stesso giustizia?» Beh, a questo punto, nella mia fantasia, Dio sorride e dice: «Ecco, così l’ho voluto, così l’ho voluto!».

Carrón. Quello che mi stupisce è osservare quale tipo di essere umano emerga per l’intervento di Dio. Nel dialogo dell’Alleanza tra il Tu di Dio e il suo io, vediamo sprigionarsi tutta la potenza del desiderio di Abramo. È perciò un determinato tipo d’uomo che emerge con l’avanzare della storia che nasce con Abramo. Che il salmista possa dire: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, / di te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta, / arida, senz’acqua» (Sal 63,2), ci fa comprendere quale provocazione deve avere ricevuto Abramo perché nel suo io si ridestasse quella sete. Per poter dire: «Io» con questa consapevolezza del rapporto che lo fonda, per essere risvegliata fino a questo punto, la natura umana deve trovarsi davanti a una provocazione adeguata.

Weiler. D’accordissimo.


IL VENIRE MENO DELL’IO

Maggioni. Ecco, questa è la provocazione: è l’emergere di questa consapevolezza dell’io. Però, diceva Carrón, questa consapevolezza non è “per sempre”. Non è un risultato che, una volta ottenuto, ha una sua realtà dalla quale non ci si muove. È una realtà in continuo divenire, da ricostruire in ogni istante...

Carrón. A un certo punto, Isaia dice: «Al tuo nome e al tuo ricordo / si volge tutto il nostro desiderio» (Is 26,8). Quale attrattiva deve avere sperimentato l’uomo di fronte a quella Presenza, per arrivare a dire: «A te si volge tutto il mio desiderio»!

Maggioni. Però... Tu dici: «Quale attrattiva...!». Ma a volte quell’attrattiva sembriamo non sentirla, non vederla, non riuscire più a intercettarla. È il momento in cui abbiamo la sensazione del venir meno dell’io.

Prima voce. «Un tempo, si diventava adulti prestissimo. (...) [Oggi c’è una continua corsa verso l’immaturità. Una volta] A tutti i costi, un ragazzo diventava maturo. (...) [Oggi, i giovani] non sanno chi sono. (...) Preferiscono restare passivi (...). Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia» (P. Citati, «Questa generazione che non vuol crescere mai», la Repubblica, 2 agosto 1999, p. 1).

Seconda voce. «La ferita è stata la noia, l’invincibile noia, la noia esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. Io non li vedo dolci i loro occhi. (...) Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, cupidi senza cupidigie, solitari in mezzo alla folla che li contiene. Io vedo occhi disperati (...) eterni bambini, (...) una generazione disperata (...) che avanza (...). Cercano di uscire da quel vuoto di plastica che li circonda e li soffoca. La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione» (E. Scalfari, «Quel vuoto di plastica che soffoca i giovani», la Repubblica, 5 agosto 1999, p. 1).
«Chi avrebbe potuto immaginare che la lunga parabola che, dall’Umanesimo e dal Rinascimento - nati con l’intenzione di affermare l’umano -, ci ha condotti sin qui sarebbe sfociata in questo letargo e in questa noia esistenziali?» (J. Carrón, Madrid 19 novembre 2010).

Terza voce. «Tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace / un’onta, forse, / un po’ come si tace una speranza ineffabile» (R.M. Rilke, «Seconda Elegia», vv. 42-44, in Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978, p. 13).

Maggioni. Due intellettuali contemporanei, Citati e Scalfari; un grande poeta, Rilke; e il senso di contrapporre quella costruzione di Dio, da cui siamo partiti, a questo momento, in cui sentiamo dissolversi quell’unità intorno alla quale ci stavamo muovendo...

Weiler. Io di mestiere sono professore di Giurisprudenza. Insegno negli Stati Uniti, in Europa, in Asia. Ovunque, mi sembra che ci sia un assetto comune. I giovani che vengono a seguire le mie lezioni di Diritto costituzionale sono ossessionati dalla parola diritti: «diritti dell’uomo», «diritti fondamentali», «dove sono i nostri diritti?»... Per carità, non vorrei vivere in una società che non rispetta i diritti dell’uomo, i diritti fondamentali, l’uguaglianza. Ma c’è una parola che non sento mai: responsabilità. Doveri. Nessuno, invece di chiedermi: «Professore, quali sono i nostri diritti fondamentali?», mi chiede: «Quali sono i nostri doveri fondamentali? E dov’è la nostra responsabilità?», invece di scaricare sugli altri la nostra responsabilità per quello che accade. «È terribile», dicono. È sempre responsabilità di qualcun altro. Questa è la riduzione dell’io, questo è il messaggio anti-abramitico. Lui è una persona che si è assunta la responsabilità dei suoi atti, della sua esistenza, di quello che accadeva accanto a lui. Se parliamo della riduzione, se penso a Rilke, a Scalfari, è proprio questa la parola chiave: non diritti, ma responsabilità. Doveri.

Carrón. Le parole di Citati, di Scalfari e di Rilke, se vi abbiamo fatto attenzione, descrivono bene in che cosa consiste il venire meno dell’io. Ma, se le dimensioni dell’io si radicano originalmente nella natura umana, come possono venire meno storicamente? Come mai dal desiderio dell’uomo di diventare più protagonista, con cui era cominciato l’Umanesimo, siamo finiti in questo torpore, in questa noia? Mi colpisce molto questa frase di Hannah Arendt: «L’uomo moderno non guadagnò questo mondo quando perse l’altro mondo, e neppure la vita ne fu favorita. (...) È perfettamente concepibile che l’età moderna - cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana - termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto» (H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano 1994, pp. 239-240). È una frase impressionante, perché costringe a rivedere la nostra posizione: noi pensiamo che il racconto di Abramo sia solo per i pii, per i devoti, che alluda a una questione etica, che il rapporto con un tu - con quel Tu - non sia così necessario per dire: «Io» con tutta la propria capacità di risposta, di responsabilità, di consapevolezza. E invece vediamo che, appena viene meno questo rapporto, decadiamo nel torpore e nella noia. Infatti, a un certo momento, il Mistero, che era entrato nella storia con Abramo, è stato percepito dall’uomo come qualcosa di contrario o di ostile a sé, e questo atteggiamento ha avuto come conseguenza il venire meno dell’io. è significativo che certe espressioni artistiche, penso al cinema, sembrino ritornare praticamente a quello che era il mondo antico e greco-latino, prima della chiamata di Abramo e dell’avvenimento di Cristo. Penso alla frase di un film di Ingmar Bergman, Fanny e Alexander (1982): «Noi Ekdahl, appunto, non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo. No davvero. Noi non siamo preparati, attrezzati per certe indagini. (...) Noi vivremo in piccolo..., nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello. Lo coltiveremo e lo useremo nel modo migliore. (...) La vita è fatta così. [Il prevedibile ritorna] Proprio per questo motivo è necessario (...) gioire di questo piccolo mondo [In cosa consiste la vita?], della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore, o anche di un valzer». Questo è diventato l’io, da quando è venuta meno la coscienza di quel rapporto costitutivo, che per noi è oggi per lo più ridotto a una sorta di spiritualità, di etica, di fiaba religiosa per visionari. Noi paghiamo sulla nostra pelle quel venir meno con questo nostro torpore, con questo nostro accontentarci: mancando la provocazione, non urge in noi il desiderio di rispondere, da cui scaturisce tutta la potenza, la capacità creativa dell’io.

Weiler. Sono d’accordo, ma vorrei introdurre un “nota bene”. Io sono religioso, però non dobbiamo pensare che noi religiosi abbiamo la verità e che i laici, per la mancanza di Dio nella loro vita, si condannano a una riduzione dell’io. Questa riduzione può accadere anche nella persona religiosa.

Carrón. Lo aveva già previsto Nietzsche. Annunciando la “morte di Dio”, egli non ha pensato che la religione fosse finita, ma che sarebbe rimasto un certo tipo di religione, incapace di risvegliare l’io.

Weiler. Il laico ateo può avere la vita piena, la sua terra promessa, prendere la sua responsabilità. Qui il pericolo è la superbia, la hubris. Voi conoscete il detto che mi piace più di tutti i profeti: «Cosa chiede Dio di te? Di fare giustizia, la misericordia e di andare umilmente con il tuo Dio». Allora, mi raccomando: umilmente.

Maggioni. Non è un caso, credo, che le tre sollecitazioni da cui siamo partiti non erano di uomini religiosi, non arrivavano da una dimensione strettamente religiosa...

Carrón. Queste cose non le diciamo solo noi uomini religiosi, come vediamo, perché sono la constatazione di ciò che accade. Mi stupisce sempre come Giussani abbia identificato bene il dramma del nostro tempo, quello che tu, Joseph, chiamavi «mancanza di responsabilità»: è come il venire meno di qualcosa, della “motilità” dell’io, egli dice. Non è tanto un problema di debolezza etica: «Vorrei fare osservare una differenza tra le generazioni dei giovani di oggi e quelle dei giovani che io ho incontrato trent’anni fa. Mi pare che la differenza stia in una maggiore debolezza di coscienza che adesso si ha; una debolezza non etica, ma di energia della coscienza» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 181). Non è che i giovani di oggi siano più pigri o meno pigri, non è che facciano più o meno errori: facciamo sempre tutti gli stessi sbagli. La questione è che viene meno la capacità di adesione a qualcosa d’altro da sé. Perché, per potere aderire, occorre un’attrattiva adeguata, in grado di muovere l’io. Il rapporto - il tu - non è secondario, non è accessorio, ma è parte costitutiva della definizione dell’io: «Non sono quando non ci sei». Questo rapporto è cruciale.

Weiler. Se abbiamo due minuti, vorrei porre una questione a Carrón. Penso che tanti qui ce l’abbiano, e può darsi che abbiano paura di porla. Riguarda la famosa storia di Abramo e Isacco. Dio chiama Abramo e gli dice: «Prendi tuo figlio». Abramo risponde: «Ne ho due». «Il tuo figlio unico». E lui: «Tutti e due sono unici». «Quel figlio che ami». «Io amo tutti e due...». «Prendi Isacco e vai ad amazzarlo!». E Abramo non dice neanche: «Sissignore», senza una parola, si mette in cammino. Si può pensare: non è un po’ come questi fondamentalisti di oggi, che nel nome di Dio sono pronti a commettere dei crimini tremendi? Come rispondiamo a questa sfida di Abramo?

Carrón. È la sfida a cui mi sembra che occorra rispondere, perché la questione decisiva è questa: che cosa può muovere una persona a prendere sul serio un invito come quello? Che cosa deve avere visto, sperimentato, Abramo? Come deve essere stato intessuto di quella Presenza, l’io di Abramo, per prendere anche soltanto in considerazione un comando del genere? Come può un uomo rispondere a una simile provocazione? Nell’Alleanza che Dio stabilisce con Abramo vi è l’inizio di una storia che poi va avanti, evolve, fa dei passi e progredisce. Dio ha incominciato da quello che c’era, dall’io così come era all’inizio, con tutte le sue difficoltà e tutti i suoi limiti, proponendogli una Alleanza per legarlo a Sé. La storia della Bibbia è piena dei limiti dell’uomo, non c’è alcuna mitizzazione dell’uomo, perché è l’uomo reale a essere stato risvegliato da un Tu. Accettando questa scommessa, a prima vista irragionevole, Abramo scopre finalmente il vero volto del suo Dio, che non voleva la morte di Isacco, ma desiderava legare a Sé Abramo, perché proprio quando l’uomo viene meno a questo rapporto compare il torpore, la noia invincibile, un vuoto che non è innocuo, come vediamo.

Video di immagini tratte dai servizi di RaiNews24 sull’attentato terroristico alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato Hyper Cacher di Parigi, 7 gennaio 2015.

LA SFIDA EDUCATIVA

Maggioni. Non è che vogliamo ridurre questo pezzo di presente, questo pezzo di storia, questa sfida contemporanea alla questione del “vuoto dell’io”; ma la questione del “vuoto dell’io” è lì dentro, come è lì dentro la questione della responsabilità che affrontavamo prima. Allora, in quei giorni, nei giorni successivi alle stragi di Parigi, nei giorni che ci hanno buttato davanti agli occhi l’emergenza che stavamo vivendo, Julián Carrón scriveva al Corriere della Sera:
«Caro direttore, si è parlato molto dei fatti di Parigi, da quando sono accaduti. Nessuno ha potuto evitare un contraccolpo di smarrimento o paura. Le molte analisi hanno offerto spunti di riflessione interessanti per capire un fenomeno così complesso. Ma un mese dopo, quando il tran tran della vita quotidiana ha preso di nuovo il sopravvento, che cosa è rimasto? Che cosa può impedire che questi fatti, pur così sconvolgenti, siano rapidamente cancellati dalla memoria? Per aiutarci a ricordare occorre scoprire la vera natura della sfida che gli attentati di Parigi rappresentano».
Qual è la sfida, certo. Però l’analisi di Carrón non si ferma qui.
«Per questo il problema è anzitutto interno all’Europa e la partita più importante si gioca in casa nostra. La vera sfida è di natura culturale e il suo terreno è la vita quotidiana. Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore, quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l’origine di quella disperazione che finisce in violenza» (J. Carrón, «La sfida del vero dialogo dopo gli attentati di Parigi», Corriere della Sera, 13 febbraio 2015, p. 27).
Julián, in quei giorni uno degli esercizi più riusciti da parte di chi vuol sempre mettere il problema distante da sé, come se fosse altro da sé, era dire che quella storia non ci riguarda. Che quella storia era l’emblema di un “noi” e un “loro”, di una distanza, di qualcosa che proprio perché è altro da noi diventa così. Tu, scrivendo questo pezzo, hai riportato tragicamente, dolorosamente, quel pezzo di storia dentro il nostro campo, dentro la nostra esperienza.

Carrón. Perché è così, è qualcosa che abbiamo in casa nostra. Non mi riferisco soltanto a coloro che arrivano da altri Paesi, ma anche ai nostri figli, ai nostri amici, ai professori con i loro studenti. La questione di Abramo è interessante proprio perché ripropone lo stesso problema: c’è qualcosa in grado di ridestare l’io e di offrire una risposta adeguata a quel desiderio di compimento che tutti abbiamo? Se questo non accade, ciò che domina è il vuoto. A questo vuoto non si può rispondere con delle contrapposizioni ideologiche, esse non sono in grado di attirare l’io, di risvegliarlo, anzi, generano soltanto ancora più violenza e più conflitto. Lungo la nostra storia, in Europa abbiamo imparato che non c’è rapporto con la verità se non attraverso la libertà. Perciò, ora che assistiamo a un continuo arrivo di persone di diverse culture e religioni, di diversi stili di vita ed espressioni, vogliamo convivere con loro? E che cosa occorre perché questo accada? Che cosa abbiamo, nel nostro bagaglio, per potere rispondere alla sfida che è in casa nostra? Questa è l’emergenza educativa che ci riguarda tutti: c’è qualcosa che può attrarre adeguatamente, che può sfidare una persona di una cultura diversa che arriva da noi? Possiamo offrire qualcosa che sia più interessante della violenza? Che sia più interessante del torpore e della noia? Abbiamo qualcosa da proporre alle nuove generazioni? Il problema, come dicevamo, non è prima di tutto etico e non si risolve con un appello morale; è un problema esistenziale, fondamentale, e si risolve solo se l’uomo trova qualcosa che corrisponde alle sue esigenze costitutive, per cui gli viene la voglia, il desiderio di mettersi in gioco, di costruire e vivere in pace. Ieri abbiamo ascoltato padre Ibrahim raccontare di un musulmano che è andato al pozzo del convento francescano e ha detto: «Padre, a guardare come la gente viene ad attingere acqua, con grande sorriso, con grande pace nel cuore, senza litigi, senza alzare la voce, io che ho girato tutta Aleppo e vedo cosa si fanno, si ammazzano per attingere ai pozzi, io mi meraviglio: voi siete diversi, pieni di pace, di gioia». La questione, allora, è se c’è qualcosa da porre nel reale, qualsiasi ne sia l’origine, che possa offrire un contributo alla situazione in cui ci troviamo, che vediamo sempre più spesso. Questa è la sfida educativa.

Weiler. Qui vorrei sfidarvi un po’.

Carrón. Sono disponibile, altrimenti mi stanco!

Maggioni. Non aspettavamo altro...

Weiler. Qui, malgrado tutti i nostri difetti, abbiamo una cultura della tolleranza. Abbiamo un Meeting con un orientamento specifico, che però non ha paura di invitare un ebreo con un punto di vista diverso.

Carrón. Assolutamente sì.

Weiler. Abbiamo una democrazia, anche se non perfetta - la democrazia non è mai perfetta, però è migliore la democrazia imperfetta di qualsiasi altro sistema. Abbiamo una ricerca continua della giustizia; non arriviamo mai, però cerchiamo la giustizia. Abbiamo anche una cultura ricca. Insomma, abbiamo tanto da offrire. E pur accettando il fatto che c’è un vuoto nella vita attuale, però il nostro mondo è civile e ricco. È importante, dobbiamo insistere su questo. E vorrei anche evitare la tentazione di dire: questo vuoto nella vita spiega un certo comportamento. Può darsi che lo spieghi, ma non lo giustifica, perché la persona è responsabile dei propri atti.

Carrón. La questione è questa: come questo tesoro che abbiamo accumulato lungo la storia, e che hai descritto benissimo, permane? Perché, come diceva Goethe, quello che abbiamo ricevuto dobbiamo guadagnarcelo generazione dopo generazione (cfr. Faust, vv. 682-683, Garzanti, Milano 1990, p. 53). E, come ha detto Benedetto XVI, solo ripartendo senza sosta, iniziando costantemente un processo educativo, ciò che abbiamo accumulato lungo la storia potrà diventare dei nostri figli (cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, 24). Questa è veramente la grande compagnia che ci facciamo gli uni gli altri. Quella ricchezza che chiamiamo «tradizione», come possiamo trasmetterla in modo attraente, per non finire con il distruggere tutto, misconoscendo il valore dello sforzo che hanno fatto le generazioni che ci hanno preceduto per arrivare fin qui? Come possiamo proporla in un modo così attraente che i nostri contemporanei la scoprano come un bene per sé e non debbano ripartire sempre da capo dopo averla distrutta? Questa è la sfida.

Maggioni. Tu dici che l’emergenza più grande di tutte è proprio quella educativa. Noi abbiamo scelto quella foto di Sebastião Salgado, che fa parte della serie magnifica di Genesis. Guardandola, guardando quei pinguini, io vedo una cosa al tempo stesso bellissima e bruttissima: leggo la forza dell’educazione, del modello da seguire, della cosa che ti porta verso la tua inclinazione e leggo anche, però, il mainstream. Nessuno di loro decide di tuffarsi da un altro punto, nessuno di loro mette in gioco il proprio io e dice: «Io mi tuffo di là». Siamo in un’epoca in cui il “pinguinismo”, che noi oggi mutueremo da lì, mi sembra molto forte: è un fattore che attraversa le nostre costruzioni di racconto, le nostre costruzioni di pensiero e di uomo. E allora è qui che diventa una sfida educativa. Professor Weiler...

Weiler. Allora, due minuti fa ho detto: abbiamo tanto da offrire. La democrazia, i diritti fondamentali, la tolleranza, eccetera. Ma dobbiamo essere anche onesti, perché io ho sempre ritenuto che la nostra civiltà occidentale abbia due fondamenti: da una parte, Atene, l’Illuminismo, il neo-kantismo, i diritti, eccetera. E, dall’altra parte, la tradizione giudaico-cristiana. Lo sappiamo tutti, oggi - non si può girare qui in Italia senza vederlo -, che questa è una parte integrale della nostra civilizzazione. Lo stesso “san Jürgen Habermas” ha ammesso che, per parlare veramente dei diritti fondamentali, le radici della tradizione cristiana sono fondamentali. Però questo fatto viene negato. Tutti ricordiamo la brutta vicenda della Costituzione europea: anche semplicemente menzionare il fatto che fra le radici della tradizione europea, accanto all’Illuminismo, c’è il cristianesimo, è stato impossibile. Allora, davanti alla tua domanda - «come possiamo fare?» - io direi: una cosa abbiamo imparato, che questa tradizione non possiamo imporla!
Carrón. Perché abbiamo imparato che l’unico rapporto con la verità è quello che passa attraverso la libertà.

Weiler. Giusto! Allora, la risposta è: la testimonianza. Il vivere una vita che sia parte integrante di quello che abbiamo da offrire agli altri, a noi stessi. In inglese si dice compelling: qualcosa che si impone, perché è più che attraente. Non si può vivere senza. Ma è possibile solo con l’esempio, la testimonianza.

Carrón. Ma è proprio questa la sfida, perché, come dice il nostro amico Antonio Polito, con cui ho presentato un suo libro sull’educazione, il problema è che «la nostra società è dunque invecchiata nelle speranze e nelle aspettative» (A. Polito, Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, Rizzoli, Milano 2012, p. 144). O, come diceva don Giussani, «a tutte queste generazioni di uomini non è stato proposto niente». Ciò che è mancato è stato proprio questa testimonianza. Tanti, dice sempre don Giussani, hanno come preoccupazione soltanto quella di offrire come proposta «una sicurezza di vita agiata, di vita senza rischi» (L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, p. 126), evitando ai figli il travaglio necessario perché diventi loro ciò che i genitori hanno conquistato; noi vogliamo risparmiarlo loro. Ma così facendo li aiutiamo solo a scavare la loro fossa.

Weiler. E io, scusatemi, non posso non dire che undici anni fa sono venuto qui con la mia famiglia e che oggi il Meeting è molto speciale per me, perché c’è qui una delle mie figlie, che allora aveva 10 anni e ora ne ha 21. È quella fanciulla bionda con i capelli dipinti di viola: molto significativo dopo la partita di ieri per voi milanisti, eh?


DA DOVE RICOMINCIARE?

Maggioni. Eh sì, c’è la storia di tutti qui dentro... Però il problema, a questo punto, è chiaro. Siamo partiti da Abramo, abbiamo visto andare in crisi il sistema e quindi la questione, adesso, è proprio: da dove si ricomincia? Tra le tantissime cose molto importanti a cui ci ha richiamato, Benedetto XVI ha detto una frase: «Le buone strutture aiutano [ed io personalmente credo moltissimo che le buone strutture aiutino: sono fondamentali, non si può farne a meno], ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno» (Spe salvi, 25) Allora, vi vorrei proporre quest’ultima provocazione: da dove ricominciare?

Prima voce. «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 229).

Seconda voce. «La soluzione è una battaglia per salvare: non la battaglia per fermare la scaltrezza della civiltà, ma la battaglia per riscoprire, per testimoniare la dipendenza dell’uomo da Dio. (...) Il pericolo più grave di oggi è (...) il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano [la nostra vera risorsa]. E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito. Perciò è soprattutto nell’Occidente che la grande battaglia deve essere combattuta dall’uomo che si sente uomo: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. Il limite del potere è la religiosità vera - il limite di qualunque potere: civile, politico ed ecclesiastico (L. Giussani, «Cristo, tutto ciò che abbiamo», Tracce-Litterae communionis, n. 2/ 2002, p. V).

Terza voce. «La letizia è il riverbero della certezza della felicità, dell’Eterno, e si forma di certezza e di volontà di cammino [una certezza che ci mette in cammino], di coscienza del cammino che si sta compiendo. (...) Essere lieti è condizione indispensabile per generare un mondo diverso, una umanità diversa. La letizia è come il fiore del cactus, che nella pianta piena di spine genera una cosa bella» (L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo 1990-1991, Bur, Milano 2013, pp. 240-241).

Maggioni. «È la bellezza che ci salverà», dice papa Francesco. La bellezza, la letizia, il superamento della crisi che c’era nelle parole di Hannah Arendt, che avevamo sentito all’inizio.

Violino (J.S. Bach, Adagio dalla Sonata n.1 in sol minore per violino solo BWV 1001).

Weiler. Ci vuole un minuto per recuperare, perché...

Carrón. Ma è proprio da qui che si ricomincia! Da questo attimo in cui uno è di nuovo preso, perché c’è qualcosa nel reale che lo attira più di tutte le mancanze, di tutti i limiti che ha, di tutte le bagarre in cui è immerso. C’è un momento, davanti a una cosa come questa musica, davanti alla bellezza, in cui l’io inizia di nuovo. Non occorre niente. Occorre solo che accada.

Weiler. Lo “spirto gentil”?

Carrón. Esatto, lo spirto gentil.

Weiler. Bisognerebbe rileggere queste parole di Giussani: «Perciò è soprattutto nell’Occidente che la grande battaglia deve essere combattuta dall’uomo che si sente uomo: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. Il limite del potere è la religiosità vera - il limite di qualunque potere: civile, politico ed [notate la sua grande umiltà] ecclesiastico». Un messaggio importante. Da dove ricominciare? Dalla bellezza di questo spirito autocritico che è pronto a limitare se stesso. E può darsi che si possa rivisitare il «Vattene» di Dio ad Abramo. «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò». Non abbiamo parlato tanto, finora, della personalità di Abramo. Ma questa iniziativa richiede coraggio, richiede determinazione. Buttarsi tutto dietro, buttare via ciò che è confortevole, comodo; e tutto con l’ideale di una Terra promessa, di cominciare un nuovo cammino. Anche questo messaggio fa parte della risposta alla domanda «da dove ricominciare?»: con il coraggio!

Carrón. Nel messaggio che ha mandato al Meeting, papa Francesco ha colto “la” domanda: «Di fronte [alla strana anestesia] al torpore della vita, come risvegliare la coscienza?» (Messaggio per la XXXVI edizione del Meeting di Rimini, 20-26 agosto 2015), come risvegliare l’io? Questa è la domanda decisiva con la quale tutte le visioni, tutte le proposte, tutte le istituzioni, tutti, tutti dobbiamo fare i conti. Solo chi ha una risposta a questo interrogativo potrà dare un contributo reale ad affrontare quel venire meno dell’io davanti al quale ci troviamo. E questa è un’opportunità per tutti. Mi colpisce che nel 1992, in una situazione terribile, don Giussani abbia detto: «Eppure, in modo paradossale, ci sono, trasversalmente a tutte le posizioni, uomini che invece hanno una sensibilità rara, difficile da trovare. È un fatto occasionale e trasversale. Speriamo che questi uomini possano dare quello che hanno. Allora si riuscirebbe a tamponare, a limitare i danni. (...) Chissà se questo desiderio di rendere meno difficile la vita dei propri figli (...) sfondi (...) l’orizzonte». Cioè, se chi ha questo desiderio di aiutare i figli o i compagni di strada, capisce che, per poterlo realizzare, ha bisogno di proporre un ideale, una speranza. «Quando parlavo di trasversalità, pensavo soprattutto a certi uomini ebrei e a certi uomini dell’islam, che sembrano i più vicini a quello che abbiamo detto prima, alla sensibilità che può sfondare l’orizzonte» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, op. cit., pp. 125-127). Ogni uomo che possieda questa sensibilità rara, di qualsiasi origine, di qualunque provenienza sia, ha la possibilità di dare un contribuito. È un’opportunità anche per noi cristiani, per dare testimonianza di una vita cambiata. Questo è il fascino del momento presente. Mi stupisce che ancora il Papa, invece di lamentarsi della situazione, come si fa spesso, affermi: «Per la Chiesa si apre una strada affascinante, come fu all’inizio del cristianesimo [spogliati di tutto, come fu all’inizio del cristianesimo], quando gli uomini si affannavano nella vita senza il coraggio, la forza o la serietà di esprimere le domande decisive» (Francesco, Messaggio per la XXXVI edizione del Meeting di Rimini, 20-26 agosto 2015); ed è una strada per risvegliare l’io umano. Qual è la strada, qual è la modalità con cui l’uomo scopre la sua verità, la verità di sé? Don Giussani, di nuovo, è magistrale: «L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa [la verità che gli si fa incontro] suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale, non totale quantitativamente, totale qualitativamente! (...) La bellezza della verità è ciò che mi fa dire: “È la verità!”» (Certi di alcune grandi cose. 1979-1981, Bur, Milano 2007, pp. 219-220); me lo fa dire per l’attrattiva che genera, in quanto mi attrae. Perciò la persona, l’io, si ritrova in un incontro con la bellezza incarnata di un testimone. La testimonianza è l’unica modalità di servire la verità, una modalità che è allo stesso tempo rispettosa della libertà dell’altro e della possibilità di proposta; una proposta che non è una teoria, una lezione, ma quello che don Giussani chiamava una ipotesi di lavoro incarnata in qualcuno. Perciò identificava la vera sfida dicendo che ciò che manca non è la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio. Infatti insisteva sul fatto che l’uomo di oggi attende, anche inconsapevolmente, di trovare sul proprio cammino persone la cui vita è cambiata (cfr. L’avvenimento cristiano, op. cit., pp. 23-24), dall’incontro con Cristo o con la propria forma religiosa. Tutti stiamo aspettando questa provocazione adeguata che faccia emergere le potenzialità dell’io. La vera questione è che tale provocazione si veda nella letizia del volto, perché «essere lieti è condizione indispensabile per generare (...) una umanità diversa» (L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo. 1990-1991, Bur, Milano 2013, p. 240). Invitando noi cristiani ad alimentare il desiderio della testimonianza, il Papa ha sottolineato che «solo così si può proporre nella sua forza, nella sua bellezza, nella sua semplicità, l’annuncio liberante dell’amore di Dio (...). Solo così si va con quell’atteggiamento di rispetto [di umiltà] verso le persone» (Francesco, Udienza ai partecipanti all’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, 7 febbraio 2015). Perciò la domanda è semplice: «Ma noi cristiani crediamo ancora nella capacità della fede che abbiamo ricevuto di esercitare un’attrattiva su coloro che incontriamo e nel fascino vincente della sua bellezza disarmata?» (J. Carrón, Corriere della Sera, 13 febbraio 2015, p. 27).

Weiler. È un uomo audace, don Julián Carrón. Pensate che “controcultura” scegliere la figura di Abramo e metterla al centro del Meeting! Richiede audacia. E dobbiamo anche riconoscere la stessa audacia a Monica Maggioni, neo-presidente della Rai. Anche tu sei audace a venire qui e moderare un panel che mette Abramo al centro della discussione...

Maggioni. Succede...

Weiler. È il tuo spirito, don Carrón. E anche lo spirito di Giussani. Si può dire: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra».

Maggioni. Grazie! Questo succede quando si incontrano persone che cambiano la vita. Uomini con sensibilità rara, come quell’Abramo. Uomini che sono in grado di sfondare l’orizzonte. E allora si capisce come è il cerchio da dove tutto era partito e su che cosa tutto si va a chiudere.

Violino (J.S. Bach, Andante dalla Sonata n.2 in la minore per violino solo BWV 1003).

Prima voce. «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3).

Maggioni. Grazie! Grazie a Roberto, al violino, a Matteo, a Giampiero e a Federica, i lettori. Grazie a tutti voi. Grazie per le cose che ci uniscono e per quelle che ci dividono, per le uguaglianze e per le differenze. Grazie!