Favela a Salvador de Bahia.

La partita di donna Ró

La città natale di Gesù, il torneo di calcio e la madre anziana. Don Emilio Bellani, prete cremonese "fidei donum", racconta la sua missione in Brasile, a Salvador de Bahia. Ecco la prima puntata
Emilio Bellani

Una cara compaesana mi ha appena inviato, quale biglietto natalizio, tre foto che mi suscitano ricordi bellissimi: i due viaggi in Terra Santa, e poi un affresco sulla natività in una splendida chiesa del mio paese, la chiesa di Santa Maria in Brixianoro. Mi ricordo di colpo che sto allestendo una mostra su Betlemme per la mia gente. La esporremo in chiesa dal 22 di dicembre sino a metà di gennaio, e sto preparando alcuni studenti perché facciano da guide.
Qua non si ha nessuna idea circa i luoghi dove Gesù è nato e vissuto, benché la maggioranza si proclami “evangelica” e cammini tutti i giorni col libro del Vangelo sotto l’ascella: e questa è la dimostrazione che si può leggere e perfino studiare il Vangelo, ahimè!, come un libro di consigli, di pensieri buoni, senza alcun riferimento storico.
Molti, tra la mia gente, credono che Belém (Betlemme in brasiliano; ndr) sia la città brasiliana di Belém, all’estremo nord del Paese. Alcuni ragazzi mi hanno chiesto se Gesù è nato qua vicino, dato che passano a volte davanti ad una padaria (fornaio) che si chiama Belém, a quattro chilometri da qua! Ma son cose, io credo, che accadono anche da voi…

L’altro giorno Luigino, che lavora coi miei fratelli ma è brasiliano del Maranhao, è venuto a trovarmi: ho aperto la valigia che veniva dall’Italia, una bella sorpresa: il vino ora sta riposando nel posto giusto, a buona temperatura, mentre il salame è disteso nel nostro frigorifero di casa. Il grana attende di essere grattugiato sugli spaghetti e le caramelle, due sacchi da 10 chili l’uno, sono già in fase di distribuzione nelle mille viuzze della favela, con bambini e rispettive madri in visibilio.
Non vi è facile immaginare quanto sia gradito un dono in questi giorni assolatissimi e, per la nostra missione, molto duri!
È appena morta una mia carissima amica, una donna che camminava con le stampelle dalla nascita e che ha donato tutta l’esistenza ai bambini e ai ragazzi più bisognosi. Ha fondato, coi quattro denari che possedeva, tre squadre di calcio, allenandole lei stessa.
La scorsa settimana centinaia e centinaia di persone l’hanno accompagnata al cimitero, uscendo dalla favela su bus stracarichi, e i ragazzi più grandi, in primissima fila e in divisa, erano tutti in lacrime.
Tutto il mondo sa che, da qualche mese, donna Ró - è il suo nome - era diventata una mia carissima amica. E forse anche per questo oggi, molti bambini della favela (la maggioranza sono protestanti) mi domandano se è vero che voglio continuare io la sua opera. Sinceramente ne ho già tante, troppe forse, di squadrette... ma se il buon Dio mi chiede anche questo...
Stavolta è di lei che vi voglio scrivere. Riaprendo una pagina del mio diario epistolare, ritrovo quanto ho scritto ad alcuni amici due mesi orsono.

«Amici, vi scrivo dal Boiadero, che è una bella fetta della nostra parrocchia: tantissime casette, per lo più molto povere, attraversate da qualche viuzza molto stretta e sempre colma di gente, specie di bambini e ragazzi che, col vento di queste settimane di primavera, si divertono a lanciare e a seguire nel cielo gli aquiloni. Mi trovo in una casa speciale, dove Edivania - una suora laica - vive con 7 o 8 persone adulte raccolte sulla strada e bisognose di tutto. Accanto a noi c’è un grande capannone da dove mi giungono le grida dei ragazzini che stanno giocando a calcio dopo la scuola del mattino. In quello spazio abbiamo terminato proprio qualche giorno fa un grande campionato di calcio tra 8 squadre di ragazzi tra i 13 e i 16 anni. Un torneo bellissimo e difficilissimo. Bellissimo perché qua i ragazzini giocano davvero molto bene e ci mettono l’anima oltre ai piedi. Bellissimo anche per le cose viste in questi due mesi. La vigilia del torneo, per esempio, abbiamo percorso tutti uniti le strade del quartiere (assai malfamato) portando ciascuna squadra un messaggio alle centinaia di persone che sulla porta di casa e alle finestre ci vedevano sfilare. Io, per l’occasione, mi sono fatto uomo-sandwich e, sotto la pioggia, portavo scritte che inneggiavano alla bellezza di quella grande compagnia di ragazzi come: “Il calcio è arte, firmato Pelè”. Un’altra diceva: “No alla violenza”. Nel 2012 sono stati uccisi 14 giovani del quartiere. Gli evangelici protestanti avevano una loro squadra, molto bene organizzata. Ho fatto scrivere su una striscia che occupava in largo tutta la strada, portata da due ragazzini: “Dio è il Dio delle sorprese [detto dal papa qua in Brasile]: come una partita di calcio, passi la palla e poi non sai quello che accadrà [questa è mia]”.
Una sera mi sono accorto, mentre camminavo, che una mamma-allenatrice invitava dopo le partite tutti i ragazzini e offriva una torta cucinata da lei, dentro una stanza dove c’era di tutto: letti, armadio, tavolo da cucina e sedie, il lavandino e la griglia, i fornelli … Era la sua casa e i ragazzini, felicissimi e seduti in tutti gli angoli, ci facevano la cena con quelle fette stracolme di cioccolato.

Il torneo è stato anche difficilissimo. Alcuni genitori, per esempio, hanno cominciato a porre limiti ai propri figli, una volta saputo che si giocava in una parte di quartiere a loro ostile. Temevano atti di violenza verso i loro figli o qualche “aggiustamento di conti”. In effetti, in alcune partite e per un fallo qualsiasi, c’erano ragazzi che si levavano di scatto dai gradoni per fare il segno della pistola. Abbiamo anche giocato una semifinale a porte chiuse perché non ci sentivamo sicuri. Mi ha aiutato tantissimo, nelle situazioni difficili, donna Rò, allenatrice, tutta la vita appoggiata alle stampelle per una malformazione, protestante (io credo). Mi ha aiutato a placare gli animi e a richiamare a tutti ciò che è essenziale. Pensate alla sorpresa che mi ha preparato per la finalissima. Gli spalti, naturalmente, erano gremiti e urlanti. Lei è stata capace di tirar giù tutti quanti in mezzo al campo di gioco, dopo averli convinti gruppo per gruppo, persona per persona. Abbiamo così formato un grande cerchio dove tutti si davano la mano, adulti e ragazzini, e poi mi ha chiamato là nel mezzo (lei, protestante) per il Padre Nostro, mi ha consegnato la palla perché la benedissi e poi dessi il calcio di inizio. Il gioco è stato molto maschio e bellissimo e il trofeo l’hanno portato a casa i più forti, in mezzo agli applausi di tutti. Mi sono commosso tantissimo al vedere i volti di quei ragazzini che hanno storie incredibili, alcuni di loro coi fratelli più grandi già uccisi dai rivali. E per un attimo, è stato a tutti evidente che Cristo è capace di compiere miracoli, servendosi di una palla e, più ancora, della mia amica donna Rò, protestante (credo)».

Alcuni giorni dopo annotavo:
«Che bello essere missionario! Me lo ripetevo in macchina, quando ho dato un passaggio alla mia nuova amica donna Rò, quella di cui vi scrivevo più su.
Doveva andare in città per una visita di controllo ed era oggettivamente in difficoltà. Allora le ho dato uno strappo.
Durante il viaggio, un paio di ore dovute al traffico, abbiamo parlato di tante cose, le ho persino letto la lettera nella quale parlavo di lei, come segno di Cristo ora nella mia vita. Molto commossa è stata in silenzio per parecchio tempo. Capivo che, nel silenzio, il nostro rapporto diventava più vero e raggiungeva la radice, che è Gesù. Al ritorno la sorpresa: arrivati a un incrocio, mi dice di svoltare a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra su una piazzetta nel cuore di una favela che non conoscevo. Esce dalla mia macchina e batte forte alla porta di una casetta. Viene fuori una vecchietta. È sua mamma. E praticamente me la getta tra le braccia. Così mi ritrovo con questa donnina di 92 anni, occhi vispi e udito così e così.
Sua mamma è cattolica, mi dice donna Rò, e le devo dare la benedizione perché esce poco di casa. Lo faccio con commozione, sapendo che quel giorno, quell’amica, mi consegnava la cosa più cara che ha qua sulla terra, la madre. Così mi è facile capire una volta di più che per essere missionari bisogna dire di sì a dei rapporti senza sapere dove ti possono portare».