Mireille, Andrée e Victorien.

«Tu per me vali più di dieci figli»

Mireille non riesce a diventare mamma. È di Yaoundé, Camerun. Nella mentalità africana non c’è scampo per una moglie come lei. Ma tutta la sua vita inizia a cambiare nell'incontro con padre Maurizio... Qui la versione integrale della sua testimonianza
Alessandra Stoppa

«Sei un albero che non dà frutti». Gli sguardi e i commenti della gente glielo sussurrano. Le rimbomba dentro. Nella mentalità africana non c’è scampo per una moglie che non fa figli. «Sono tutti lì, che ti guardano. E aspettano». Mese dopo mese, un anno dopo l’altro, in cui per Mireille cresce solo il dolore di non poter fare all’uomo che ama il regalo più grande: «Era tutto ciò che volevo. Vedevo l’amore di Victorien per me e desideravo con tutta me stessa dargli un figlio». A Yaoundé, la capitale del Camerun da un milione e mezzo di abitanti, è cosa di tutti i giorni che un marito se ne vada, prenda un’altra donna, anche quando i figli ci sono, e numerosi. Figurarsi se lei non riesce ad averne.
«Ho sempre chiesto che ne arrivasse uno. Uno solo. Riducevo il numero per non chiedere troppo», dice Mireille Yoga, che oggi ha trentotto anni ed è sposata con Victorien da tredici. Nei quali non è “arrivato” nulla, di ciò che lei si poteva immaginare. Alcuni anni prima del matrimonio, incontra Cl. «Andare in chiesa era una formalità. Lo facevo perché mio padre era catechista, ma io non avevo mai sentito il desiderio di seguire Gesù. Era così astratto. Come si poteva addirittura amarlo. Eppure Cristo l’ha chiamata dietro sé come Giovanni e Andrea: «Un giorno ho chiesto a due ragazze dove andavano sempre quando finiva la riunione del coro. “Vieni e vedi”. Ci sono andata e il Mistero mi ha aperto le braccia». E le ha riempite di una storia che le ha ribaltato la vita. «Io so solo che ho imparato ad osservare, ad obbedire, dare fiducia e lasciarmi educare. Se fosse dipeso da me, mi sarei chiusa in tutto quello che sentivo». Tanto che quando Victorien le chiede di diventare sua moglie, lei: «Sappi che questa donna che vuoi sposare è “fatta” dalla fede. Se tu sapessi chi ero prima, non mi sposeresti». Poi gli pone una condizione, inimmaginabile in una cultura per cui l’uomo è maestro e padrone: «Non impedirmi mai di seguire la strada che mi ha trovata. Perché questa è la mia vita con Gesù».

Eppure il suo legame con il movimento si allenta, per quattro anni, in cui il matrimonio senza figli diventa insopportabile. E il suo desiderio un’ossessione.
Un giorno squilla il telefono. «Vieni a lavorare con i ragazzi di strada». È padre Maurizio Bezzi, un missionario che ha un centro per i ragazzini nanga boko, “quelli che dormono fuori” e vivono tra la strada e le celle dei commissariati. Sono tantissimi in Camerun, secondo il Ministero degli Affari sociali diecimila, ma è una cifra approssimativa. Molti arrivano nella capitale dal Nord, dalle savane, dopo aver attraversato novecento chilometri di foresta tropicale. Dormono davanti alla stazione ferroviaria, nei mercati o nei parcheggi. Il Centro sociale Edimar di padre Maurizio non dà né alloggio, né cibo, ma una proposta educativa: i ragazzini possono entrare liberamente, imparare a leggere e scrivere, studiare, farsi ascoltare, curare.

Il Centro apre nel 2002, ed è allora che padre Maurizio chiama Mireille: «Ho detto a Victorien: “Lasciami andare”. Era il mio bisogno di essere madre che cercava risposta». Quei bambini non voluti e mal-aimé, amati male da padri poligami e famiglie sfasciate, hanno iniziato a rincorrerla chiamandola maman e a diventare uomini con lei. Ma non è questa la risposta. «Io lì ho ritrovato la compagnia di Cristo e mi sono aperta al Mistero. Ho imparato a guardare tutta la realtà per quello che è: un dono». Nel 2003 va per la prima volta all’Assemblea internazionale dei responsabili di Cl e sente parlare don Julián Carrón: «Mi sono sentita scuotere nell’intimo. Mi dicevo: tutto questo è vero. Devo portare a casa quello che mi si sta presentando davanti agli occhi». Non poteva più credere a chi le diceva che il cristianesimo era una storia di bianchi. «Vedevo per la prima volta quello che costituisce padre Maurizio e gli altri amici del Centro, quello che ci indicano. Lì ho capito perché sono come "imperturbabili": a loro non interessa quello che dice la gente, cioè che i bianchi ci ingannano, a loro interessa solo mostrarci la bellezza di appartenere a Cristo, che ci fa uomini nuovi, liberi».
Quando torna, inizia a guardare i ragazzi del Centro sempre più profondamente. Sta con loro e le sale la domanda: «Chi sei Tu, mistero che ci crei?». Anche Victorien inizia a cercare per sé quello che vive la moglie. Invece di lasciarla, si lega di più a lei. «È così che ho visto il nostro amore crescere». Insieme a quello stesso, preciso desiderio di avere un figlio.

Mireille continua a chiedere il miracolo. Ma il bambino non arriva mai. «Perché?». Lo grida allo sfinimento. Un giorno Victorien le dice di non piangere più: «Tu per me vali più di dieci figli. Io ti risposerei oggi». Un uomo africano non può parlare così. «C’è solo un motivo», dice lei: «Nel nostro matrimonio c’è Cristo». E si fa più chiaro quando il desiderio sembra trovare fine.

Altra telefonata che le stravolge la vita: «Mi chiama la nipote di mio marito. Aspettava una bambina e voleva la crescessimo noi». Così ora con loro c’è Andrée, che oggi ha due anni: «Averla tra le braccia, averla in casa... Finalmente era arrivata come lo scopo di tutta la nostra vita», dice Mireille: «Ma non lo è. Questa chiarezza mi ha raggiunta con forza una sera».
È a cena e padre Marco, un amico, sta parlando di sé con le lacrime agli occhi. Ha deciso di entrare in clausura. «Niente mi basta più», dice: «Voglio che Cristo mi prenda tutto intero, che prenda tutto di me». Andrée gironzola, lei la ferma, se la stringe, senza togliere lo sguardo da Marco. «Era un altro uomo. Il desiderio di darsi gli copriva il volto. In quell’istante, mia figlia, tra le braccia, non la sentivo più, era come se non ci fosse. Lo sguardo di Marco mi “toglieva” quella bambina che tanto avevo desiderato, spazzava via tutto. Ed era Gesù che mi toccava. Mi diceva: che cosa cercavi Mireille? Lì ho scoperto me stessa, che il mio cuore desidera di più. Sono stata presa con una tale violenza che ho capito di non avere più scuse: Lui è tutto in tutto. E vuole me».

La coscienza vera di sé, fin nella fibra più profonda. Ha una potenza che sta cambiando il mondo intorno a lei, qui dove la gente corre a battezzarsi con la vita ancora in balìa degli spiriti. «Sono stata chiamata, anche con l’esperienza del mio matrimonio, a dire a tutti che Cristo è dentro la realtà. E risponde a tutto di me. Se non è così, non può generare una persona nuova, e non può far nascere una nuova cultura». Anche tanti dei ragazzi del Centro sono battezzati, ma della fede non sanno nulla. «È quando scoprono Cristo in maniera personale, dentro l’amicizia, che cambia la loro mentalità, la concezione che hanno di se stessi e di tutto». Solo questo è capace di bloccare il potere di tutto il male in cui sono vissuti e che hanno fatto.
C’è Josef, quindici anni, abbandonato nella savana per mesi. Quando è arrivato al Centro non parlava mai. Appena qualcuno voleva avvicinarsi, scappava. Viveva di furti e canapa da fumare. «Gli chiedevo se avesse paura di finire in galera», dice Mireille: «E lui: “Me ne frego. Non so neanche perché sono stato partorito”. Nel tempo ha smesso di rubare e di fumare». O c’è Ernesto, con i segni delle frustate sulla schiena. La madre morta di Aids e il padre mai conosciuto. «Andava in giro con un coltello in attesa di incontrarlo. Si considerava il figlio della colpa». Lei e Victorien lo hanno accolto in casa. «Io voglio solo che ognuno di questi ragazzini non possa più dire: nessuno ha posato uno sguardo pieno di amore su di me». Perché è questo sguardo che svela a loro chi sono, la grandezza che sono.
Alidù è musulmano. Dopo quattro mesi al Centro, ha deciso di andarsene. Piangeva: «Qui mi avete insegnato a vivere in famiglia. E ho capito quanto fosse importante la mia. I miei dicono che non devo stare in mezzo ai cristiani quindi io torno a vivere là. Grazie per tutto quello che avete fatto per me, ma io non posso più dormire su dei cartoni, in mezzo alla strada: sono un uomo». E solo così, dicendo “io”, ha convinto un’altra decina di ragazzini a lasciare la strada.