«Il mio su un cartello»

Ieri l'America non ha scelto solo il nuovo Presidente. I vari Stati si sono espressi nei referendum su temi caldi: dalla marijuana libera ai matrimoni gay. Raffaella, mamma e sposa che vive in Minnesota, racconta che cosa ha cambiato il voto. In lei
Alessandra Stoppa

«Ma cosa può cambiare un cartello?». È la domanda di Letizia, diciassette anni. «La verità bisogna dirla, e la verità è che io sono contento della mia famiglia»: questo è Pietro, di tredici. La discussione in casa è accesa. Raffaella e Andrea hanno convocato i quattro figli per una decisione importante. Piantare o no un cartello nel frontyard di casa.
Ieri l’America non ha scelto soltanto il suo nuovo Presidente. Si è espressa anche su alcuni punti decisivi della vita sociale con centinaia di referendum: 176 proposition. Il tema più forte era quello del matrimonio gay, su cui si sono pronunciati Maine, Maryland, Stato di Washington. E Minnesota. Qui, il matrimonio gay è vietato per legge. Il Congresso statale - a maggioranza repubblicana - aveva approvato un emendamento per inserire questo divieto anche nella Costituzione. Il referendum non lo ha ratificato. Il quesito era posto in questi termini: l’unica forma di matrimonio possibile è quella tradizionale: «One man, one woman»? Hanno vinto i "no". Risultato: il matrimonio gay resta vietato solo per legge (e non dalla Costituzione). Ma intanto è venuto a galla un trend che va in direzione opposta.

Nelle scorse settimane, «la gente di qui ha reagito di più sul referendum che sulla scelta del Presidente», racconta Raffaella, che è andata in parrocchia e ha preso il SÌ da mettere fuori casa, nel mezzo di questo quartiere di Rochester, dove la maggior parte delle villette hanno esibito il loro NO. Vive qui da quattro anni: ieri non ha votato, perché non è cittadina americana, ma in questi mesi vedere cosa le stava accadendo intorno le ha fatto fissare lo sguardo sul fondo della sua vita.
Le famiglie dei vicini con il loro NO sono tutte come la sua: coppie sposate con tre, quattro figli. «Questa è la prima cosa che mi ha ferita. Ma che cosa vuol dire la nostra vocazione di sposi? Che cosa vuol dire per me?», si ferma: «Io amo la strada che Dio ha scelto per me?».

Quel SÌ barrato sul cartello è la risposta a questa domanda.

Ne hanno parlato lei e Andrea. Esporsi così, oggi, può portare delle conseguenze. La gente ti accusa di essere intollerante, e così anche sul lavoro. Letizia frequenta la scuola pubblica e, fra i suoi compagni, ci sono alcuni ragazzi che si dicono omosessuali. All'inizio, era preoccupata che il cartello fosse preso come un attacco alle persone che per lei hanno un volto.
«Noi ci siamo guardati in faccia, avendo presenti tutte queste cose», racconta Raffaella: «Soprattutto abbiamo guardato ciò che suscitava in noi». Quella domanda della primogenita, che è di tanti: cosa cambia mettere quel cartello? Tanto ormai la maggior parte della gente è convinta del contrario, quella sulla famiglia è una battaglia persa, e nei rapporti di vicinato vige il Minnesota nice, il politically correct in versione locale, nessun dialogo franco e leale, per evitare di urtare la sensibilità dell’altro. A forza di non giudicare più nulla perché è da intolleranti, si finisce per non giudicare quello che si vive in prima persona. E se sei tra i pochi del quartiere che mettono fuori il SÌ, ti chiedi ancor di più qual è la battaglia, e quale contributo sei chiamato a dare nell’annacquamento di ragioni generale. Di fronte al mondo che dice l'opposto, «noi alla fine siamo una mosca. Anzi una zampa di mosca...», provocano i figli. «Sì, è così», risponde Raffaella: «Ma noi non siamo “contro i gay” o altro. Il punto è che facciamo un’esperienza e possiamo non essere consapevoli di cosa sia. Quindi, nemmeno la difendiamo quando viene negata». L’esperienza, guardata, ha una ricchezza che straborda tutto, per primi gli “schieramenti”. Può far scoprire ad una ragazzina che cosa le permette di voler veramente bene ai suoi amici. Può far ribadire a suo fratello: «Io sono contento e non devo avere paura di dirlo».

Può portare Raffaella a piantare quel cartello con le lacrime agli occhi. «Non avrei mai pensato di “dire” così che tutto quello che ho nella mia vita è un dono di Dio». Perché è questo che viene minato, alla radice. «La proposta del matrimonio gay apre una breccia enorme sulla concezione di tutta la vita. Ogni cosa è un diritto: ho diritto di amare chi e come voglio, fino a pensare che anche i figli siano un diritto. Ma questa è una menzogna, travestita da libertà. E trovarmi davanti a questo mi aiuta a non dare per scontata la faccia di mio marito e dei miei figli. Mi sono dati. Sono la via scelta per me per andare in Paradiso». È così vero che, quella sera, la decisione di mettere fuori il cartello è stata di tutti: «Ognuno di noi ha detto il suo sì».

Il cartello gliel’hanno rubato dopo una settimana. Loro ne hanno preso un altro e ripiantato. L’autista dello scuolabus ha smesso di sbracciarsi fuori dal finestrino quando si ferma davanti a casa. Mentre a scuola, i compagni della figlia sghignazzano. «Ma che grande occasione è per noi», dice Raffaella: «Proprio mentre il Papa con le sue parole al Sinodo ci dice che “i cristiani non possono essere tiepidi”. È solo per una bellezza che possiamo bruciare. Non per altro. Per la bellezza che scopro se guardo il mio essere sposa, che è un cammino in Cristo e non affermare me stessa. Questo mi svuoterebbe». Allora cosa può cambiare un cartello? «Cambia me».