La famiglia Kaplan.

Quel lembo di terra nuova

Marie Kaplanova, morta di recente, è stata con il marito Jirí un segno della bellezza della vita cristiana. Due testimonianze di chi, dal '68 della Primavera, fu accolto nella loro casa. Dove fiorì un'amicizia che divenne patrimonio per tanti

Di Jirí e Marie Kaplan mi ha colpito fin dal primo incontro la modalità semplice e diretta della loro fede. Per entrambi essere cristiani era qualcosa di immediato, quasi come una caratteristica del proprio fisico, che non aveva bisogno di nessuna premessa né di molte spiegazioni. Durante il nostro anno di permanenza a Praga frequentavamo regolarmente una messa settimanale del tardo pomeriggio in una chiesa nel quartiere del castello, alla quale assistevano diversi amici loro e nostri. Qui mi ha stupito più di una volta l’espressione assorta e luminosa di Marie nella preghiera, una dimensione che tornava poi nelle sue parole quando diceva della necessità di affidarsi. E di Jirí ricordo che una sera, appena giunto in città, alla richiesta di notizie sulla situazione, mi rispose che la politica nei confronti della Chiesa e dei singoli fedeli si stava facendo sempre più dura. Poi aggiunse che forse Dio prevedeva di mandarlo a parlar di Gesù in qualche lontana periferia sovietica (questo non gli accadde ma qualche mese di carcere boemo non gli fu risparmiato in seguito). A colpirmi questa volta fu la tranquilità con cui parlò di questo possibile andare, paragonandolo all’andare in missione dei primi cristiani. A Jirí in particolare il legame con la comunità di Taizé offrì un retroterra di riferimento: riuscire a trascorrervi alcuni giorni, disse una volta, era come essere rigenerati. La dimensione ecumenica caratteristica di Taizé era del resto connaturata alla fede di entrambi.

L’immediatezza del rapporto con Dio diveniva in loro una capacità di apertura e di accoglienza che a noi apparve smisurata, nel senso di volutamente priva di limite. La vita cristiana era «partager sa foi», mettere la propria fede a disposizione degli altri, scrisse una volta Marie. E così fecero non solo nell’accogliere i numerosi figli e nel rispettare il cammino di ognuno, ma nei confronti di chiunque si presentasse alla porta o venisse portato da amici. Sul muro accanto al tavolo della loro cucina era appeso un foglio con la scritta ben visibile: «Chi è il mio prossimo?». Quando per la prima volta Jirí me la mostrò e la spiegò come un programma di vita, mi sentii anch’io accolto, stretto in questo abbraccio fraterno. Ed effettivamente seppero seguire con affettuosa attenzione le vicende personali di quanti conobbero dall’Italia: ricordo la festosa reazione di Marie quando le dicemmo che Ida e io ci saremmo sposati e le domande che non mancavano mai, ad ogni nuovo incontro, sull’uno e sull’altro amico comune passato dalla loro casa.

Noi, allora, eravamo giovani, poco più che ventenni, molte idee e progetti, tanti giudizi, e poca esperienza. Loro più che quarantenni, maturati in un contesto difficile, ostile, religiosamente frammentato e umanamente deteriorato. Potevamo mettere in gioco quanto avevamo imparato dal movimento, ma lo scarto era veramente grande. In più, era marcata ai loro occhi la differenza nelle reazioni e nei comportamenti tra loro, centro-europei, e noi, italiani e mediterranei. Eppure superarono d’impeto queste differenze aprendo un rapporto di amicizia solido e duraturo. Non solo ci offrirono dove dormire quando capitavamo in visita a Praga ma ci misero a disposizione la loro casa per gli incontri che ci premeva fare con una certa discrezione e a volte ne organizzavano loro stessi per noi. Nella loro casa di Bubenec potemmo discorrere con sacerdoti, teologi, intellettuali e ascoltare la testimonianza di cristiani che avevano patito il carcere per la loro fede. Riportammo molte di queste parole in Italia dove, grazie a don Giussani e a don Francesco Ricci di Forlì, divennero patrimonio comune per tanti.

Un altro tema fondamentale a ritmare il loro tempo era il rapporto con altre famiglie cristiane. A volte si trattava di esercitare un coro musicale, altre volte era la voglia di suonare insieme musica da camera, secondo un civilissimo uso della città, e ci riuscivano bene. Sempre era l’occasione per condividere con altri le durezze del tempo, le difficoltà quotidiane, le domande sull’educazione dei figli. In qualche caso si faceva catechismo ai bambini. Oltre la cerchia degli amici c’era l’apertura a chi era in estrema difficoltà, come quella donna che attendeva l’esecuzione della condanna a morte del figlio, o quella famiglia economicamente molto bisognosa per la quale organizzammo vacanze al mare in Italia. In seguito radunavano regolarmente giovani di tutte le provenienze per la preghiera e per la riflessione nella loro casa di Praga e nell’estate sui monti di Šumava. Il desiderio di sostenere la vita cristiana nel proprio Paese portò Jirí a tradurre anche diversi testi e a pubblicarli in quella particolare forma di editoria che andava sotto il nome di samizdat.

Quando, circa quarant’anni dopo quei primi incontri, Francesco, da poco eletto Papa, ha ricordato che «non dobbiamo aver paura della bontà, anzi neanche della tenerezza», ho pensato subito a Jirí e Marie che aprivano la loro casa. Sviluppando il suo insegnamento papa Francesco ha invitato tutti i cristiani a ritrovare ciò che è essenziale, «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto», che della nostra fede è ciò «di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio». Questa fede, che per fondarsi non ha bisogno di niente prima e di niente dopo, è all’origine di una gioia che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù».

Quando leggo queste righe ricordo certe serate di piana conversazione, quando le palpebre si abbassavano per il peso della giornata (i figli, il lavoro, le preoccupazioni per gli amici...) ma non c’erano recriminazioni contro nessuno ed era palpabile il desiderio di comunicare e la passione per Cristo. Certo, il contesto e i tempi erano diversi e ben più aspri dei nostri attuali. La Boemia era allora un paese distrutto, dove i criteri di fondo della vita associata e di quella personale erano stati demoliti, senza che l’intensa azione di propaganda fosse riuscita a sostituire ad essi la luminosa visione di un futuro socialista. Per usare le parole di papa Francesco, Praga e la Boemia erano una grande periferia. Periferia di un’Europa d’occidente che si voleva libera mentre si stava arricchendo, ma anche periferia di vite personali che non avevano più dove consistere.

In questa terra desolata la casa di Bubenec costituiva un lembo di terra nuova, come finalmente un respiro a pieni polmoni, la possibilità di ritrovare la propria umanità in una rete di relazioni liberate. Sono grato per la grazia che abbiamo avuto di condividere con Jirí e Marie il grigiore di quella società e la bellezza di quella vita cristiana.
Massimo Guidetti