Julián de la Morena, Silvia e gli amici del Suriname.

Una promessa nella foresta equatoriale

In viaggio con don Julián de la Morena per far visita a due famiglie italiane. Gli incontri con Sofie, con Ina e suo marito, cercatore d'oro, o i vicini di casa... In una lettera le amicizie nate da quei primi arrivati. E l'inizio di «un altro mondo»

Paramaribo, Cayenne… Sembrano parole di una canzone, o marche di automobili di lusso. Invece sono i nomi delle capitali di Suriname (ex Guyana Olandese) e Guyana Francese, sede di una importante base spaziale europea, due Paesi tra Venezuela, Guyana Inglese e Brasile. Quando mi è stata fatta la proposta di essere visitor del movimento in Suriname e in Guyana, ho pensato a quando studiavo questi Paesi a scuola: mai avrei immaginato di conoscerli personalmente, ma la fantasia di Dio è sempre più grande, anche di quella di un'adolescente sognatrice ed appassionata di conoscere il mondo.

E così, il 16 gennaio, con don Julián de la Morena (responsabile di Cl in America Latina; ndr), compagnia preziosa nell'aiutarmi ad entrare in questo mondo, sono arrivata a Belem, al Nord del Brasile, vicino all'estuario del Rio delle Amazzoni. Nel viaggio da San Paolo a Belem abbiamo letto le pagine della biografia di don Giussani in cui racconta il suo primo approccio con il Brasile, avvenuto proprio in queste terre. Ricorda l'incontro con un missionario del Pime, padre Angelo Biraghi, sul Rio delle Amazzoni. Giussani lo accompagna in un pezzo di desobriga (la visita pastorale alle comunità dell’interno) e lo vede mettersi le calosce fino alla vita ed entrare nel fango, e allontanarsi, per arrivare dopo otto ore da un seringueiro che nella foresta tirava fuori la gomma dagli alberi. «Sarò stato lì almeno mezz'ora senza muovermi, pensando: "Ma guarda cos'è il cristianesimo!"», dice Giussani: «Quest'uomo che rischia la pelle per uno (uno!), per andare a trovare uno che prima non aveva mai conosciuto e che magari non avrebbe mai più visto nella vita, per portargli una parola e per segnare un gesto di amicizia!". Insomma, io raccordo con quel momento, con quell’istante, la percezione vivida del fatto che il cristianesimo nasce proprio come amore all'uomo». Cosa poteva riempire di più di senso questi giorni se non queste parole? Questo muoversi per uno solo c'entrava molto con il nostro viaggio, perché stavamo andando in Suriname solo per incontrare due famiglie: Carlo e Carlotta, di Varese, che vivono lì dal 2012, con tre figli ed uno in arrivo; e Giovanni e Lucia, di Frosinone, che dall'estate scorsa vivono con due figli a Cayenne. Ed allora, con lo stupore di partecipare a questo flusso che - dopo più di 50 anni da quel viaggio di don Giussani - arriva fino a noi, siamo andati ad affidare quest'avventura alla Madonna, nella Basilica di Santa Maria di Nazareth di Belem.

Il volo per Paramaribo è spettacolare: nuvole e squarci su infinite distese di foresta equatoriale. Intanto, mi imbatto in questa frase in cui Giussani commenta la visita di Maria ad Elisabetta: «Ma dove questa fede arriva, l'umanità vive come incominciasse adesso a vivere: "E il bambino sussultó nel grembo di Elisabetta". Dovunque arriva questa fede, nell'orizzonte della nostra vita o nell'orizzonte della vita della società o di una compagnia di uomini, arriva la vita... La fede fa vivere l'umano e rinsalda i suoi nessi, fa essere una cosa sola. Quello che si può sperare come famiglia o che si può sperare come popolo, nel gesto di Maria si esprime come unità dell'umano. E non ci sono più barriere neanche per la fatica di un interminabile cammino...». Anche queste sono parole cariche di una promessa insperata per quanto ci attende.

L'impatto con una strada stretta e a doppia corsia in mezzo alla foresta, che collega l'aeroporto di Paramaribo alla capitale, ci fa subito capire dove ci stiamo addentrando... Immagino lo shock che possa provocare negli europei e negli americani che arrivano qui per lavorare. Sì, per lavorare, perché questo è un Paese in cui sembra che si venga solo per necessità di lavoro. Su questa strada troviamo tempi indù, moschee, chiese protestanti e tanti supermercatini indiani o cinesi. L'immigrazione è varia, in un Paese con solo 500mila abitanti, che sono quasi tutti concentrati a Paramaribo.
Arriviamo a casa di Carlo e Carlotta, dove ci aspettano con i loro tre figli di 2, 4 e 6 anni, felici e pieni di vita, e non appena arrivano anche Lucia e Giovanni con Antonio ed Enrico, di 5 e 2 anni, emerge più chiaramente cosa vuol dire e cosa porta il nostro essere qui. Loro sono arrivati in auto fino al confine con il Suriname, hanno lasciato l'automobile in un luogo praticamente sconosciuto, hanno attraversato il fiume che separa la Guyana Francese dal Suriname con l'unico mezzo disponibile: la piroga (meglio conosciuta come canoa). Poi hanno preso un taxi: altre due ore per raggiungere la capitale del Suriname.

«Mi sono sentita a casa sin dal primo istante!», dice Lucia: «A me sembra che ci siamo sempre conosciuti e mentre eravamo per strada mi chiedevo: "Ma perché ci facciamo tutti questi chilometri, in queste condizioni, per venire qui solo due giorni per stare con delle persone che non ho mai visto prima? Non li abbiamo fatti nemmeno per andare da mia suocera in Calabria o in Puglia dai miei genitori, quando a Natale siamo stati in Italia...". Mi ha colpito come voi ci avete cercato, come ci siamo sentiti voluti bene quando nei primi mesi a Cayenne non riuscivamo a metterci in contatto con voi e avete fatto di tutto per trovarci». Al punto da far dire ad Antonio: «Mamma, ma questi sono come i nostri amici di Frosinone!». La gioia di conoscerci è paragonabile a quella dei cinque bambini nell'aprire i regali che gli abbiamo portato e nel giocare a catturare uccelli con don Julián a piedi nudi in giardino. Una gioia che sarebbe inspiegabile se non per la coscienza di Chi ci unisce.

Nei giorni successivi stiamo con loro e con i loro amici che, poco a poco, arrivano e ci fanno affiorare in cuore queste parole di Carrón: «Non siamo noi che generiamo la vita; la vita la fa nascere e crescere Colui che è il protagonista della storia. Noi dobbiamo custodirla, dobbiamo prendere atto di quella nascita e darle tutti gli strumenti che occorrono perché questa vita possa svilupparsi secondo un disegno che non è il nostro». Abbiamo incontrato tante persone con storie diverse. Lingue diverse, percorsi lunghi e tortuosi. Il marito di Ina (peruviana e grande amica di Carlotta), battista americano, cercatore di oro per una delle più grandi società minerarie del mondo, la Newmont. O Sofie, colombiana, maestra nella scuola internazionale battista del Suriname, frequentata dai figli di Carlo e Carlotta e dai figli delle amiche. Sofie ha conosciuto il marito del Suriname via internet, insoddisfatta di tutta la realtà che aveva intorno, sia in famiglia che nelle amicizie. E poi il pranzo della domenica con padre Ruben della famiglia religiosa del Verbo Incarnato, una congregazione argentina a cui il Vescovo di Paramaribo ha chiesto di venire in Suriname, e otto suore, tutte molto giovani e piene di vita che, con la stessa familiarità con cui giocano a pallone insieme ai bambini, ci raccontano della loro vocazione. E, poi, chi si sarebbe immaginato l'incontro con la console onoraria della Spagna in Suriname: colpita nel vedere dalla sua terrazza la vivacità con cui giocano Pietro, Paolo e Francesco, mi saluta con entusiasmo. Così la invito a partecipare alla messa cattolica celebrata da un sacerdote spagnolo. E lei, in cinque minuti, arriva tutta sorridente ed elegante. Ci sorprende quando, alla Comunione, ci dice che era protestante, ma che l'attrattiva di conoscere un sacerdote spagnolo in visita in Suriname le ha fatto rapidamente lasciare la sua colazione per raggiungerci.

Tra gli incontri e i racconti della vita qui, emerge la fatica del vivere in luoghi così difficili, l'essere soli e la promessa che possa nascere qualcosa che rimanga nel tempo, dentro alla sfida di lavori molto impegnativi come sono quelli di Carlo e Giovanni. Carlo, project manager, responsabile per la sua azienda della costruzione della prima raffineria del Suriname, guida più di 850 persone da tutti i Paesi. Giovanni lavora alla base dell'Agenzia aerospaziale europea a Cayenne e si occupa dello sviluppo dei motori e serbatoi che servono per lanciare nello spazio i satelliti, soprattutto di uso commerciale (un lancio al mese in media). La vita è intensa per ognuno di loro, e anche dura, ma colpisce la letizia, la certezza e la semplicità con cui vivono e che li rende così interessanti e pieni di attrattiva per tutti quelli che li incontrano. Semplicemente con la loro vita, testimoniano alle tante persone che incontrano che è possibile vivere lì, volersi bene, crescere dei figli, avere degli amici e costruire, in ogni luogo e con ogni persona in cui ci s'imbatte, dalla scuola al lavoro, alla chiesa, al supermercato, per strada.

Al ritorno dal nostro viaggio, Ina mi scrive: «Ho imparato molto in tutti i sensi da Carlotta. Soprattutto mi ha fatto vedere una prospettiva della Chiesa che io non mi sarei mai immaginata che esistesse: la compagnia, il costruire una comunità e, soprattutto, che quando c'è il desiderio di condividere, di aprirsi, possiamo incontrare cose che non ci immaginiamo. Mi è molto chiaro che tutto questo è possibile per la grazia di Dio e di Sua Madre».

Colpisce rendersi conto di come questo piccolo mondo del Suriname con la loro presenza sia già un altro mondo. Quello che hanno vissuto e stanno vivendo Carlo e Carlotta a Paramaribo, e Lucia e Giovanni a Cayenne, è un compito storico. In futuro ci saranno sempre più situazioni così, in cui persone del movimento saranno chiamate ad andare nei posti più impensabili per lavorare. «Un po' come accadeva all’inizio del cristianesimo», ci ricordava don Julián: «Si è diffuso per un commerciante o per un soldato... Che andavano in un’altra regione dell’impero romano». A portare Cristo, come Maria ad Elisabetta.
Silvia Caironi