Le prime copie africane di "Traces".

«Tracce? Ora lo stampiamo noi»

Da quindici anni "Traces" veniva spedito in tutto il mondo. Da maggio è solo online. A Kampala e a Nairobi hanno deciso di diffonderlo in autonomia, riscoprendo che attraverso la carta «si può testimoniare all'altro chi ci ha preso»
Davide Ori

«Sto riscoprendo il valore di Tracce da quando sono qui», dice Matteo Severgnini, classe 1981, insegnante italiano alla “Luigi Giussani High School” di Kampala, in Uganda da due anni. «Per quello abbiamo deciso di stamparcelo da soli». Troppo importante, dicono da Uganda e Kenya.

L’antefatto è che, fino allo scorso aprile, Traces, mensile di CL nei Paesi anglofoni, veniva realizzato in Italia e spedito in tutto il mondo. È stato così per quindici anni: dalle Filippine all’Irlanda, dagli Stati Uniti all’India, la rivista raggiungeva i quattro angoli del pianeta. Di recente, dopo una riflessione comune sui costi, le tempistiche della distribuzione e le nuove opportunità offerte dal web, si era deciso di puntare sui supporti digitali. Così è stato: da maggio la rivista cartacea in lingua inglese non esiste più, trasformata in un documento pdf pubblicato sul sito di Comunione e Liberazione e messo a disposizione di tutti.

Solo che, in questi ultimi mesi, ragazzi e adulti delle comunità keniote e ugandesi hanno cominciato a chiedersi come avrebbero potuto affrontare questa “mancanza”: «Adesso che non ci arriva più dall’Italia cosa facciamo? Ma ancora di più, che valore ha Traces per noi?». A distanza di tredici anni dalla prima vendita militante della rivista in lingua inglese nel continente nero, non avevano mai smesso di incontrare la gente uno o due giorni al mese fuori dalle chiese e nei mercati di Kampala e Nairobi. La decisione è unanime: «Lo stampiamo noi». Così eccole oggi, in una foto che hanno mandato in redazione, fresche di pochi giorni, le prime copie uscite da una tipografia in Kenya.

«Per noi Traces è vitale», racconta ancora Severgnini: «Innanzitutto per la possibilità di confrontare il nostro cammino con quello del movimento. E poi, per approfondire il giudizio che guida la nostra vita». E l’ultima ragione, non per importanza, «la possibilità che la nostra esperienza possa essere conosciuta da tutti», come dice Marvin, un ragazzino della “Luigi Giussani High School”.

«Se non riceviamo più il mensile dall’Italia, dobbiamo fare qualcosa noi», è stato il pensiero di tutti, che si è trasformato in questa decisione. In Africa solo il 4% della popolazione ha internet, e non bastava il sito col formato digitale. «Serviva la carta per incontrare la gente e testimoniare all’altro cosa ci ha preso», incalza David Cheboryot, che lavora al Tangaza College di Nairobi. E la “prima mossa” non ha tardato ad arrivare. Per cominciare la ricerca di uno stampatore, il più conveniente tra Kenya e Uganda. Con un totale di 250 copie per Nairobi e 400 per Kampala, e una giornata pensata per la vendita militante in Uganda. Dal numero di luglio/agosto, poi, c’è in cantiere l’idea di inserire due articoli ad hoc sia sulla vita della comunità in Uganda che su quella in Kenya. Per esempio, la vacanza di Gs e del Clu ugandesi di pochi giorni fa.
«Poi c’è tutto il lavoro di trasporto e spedizione da pensare bene. E, perché no, la ricerca di eventuali sponsor», aggiunge Severgnini.

«Non potevamo rinunciare al pdf mensile, perché lo sguardo della stampa locale è sempre rivolto solo a ciò che accade nel Paese o al massimo nell’est dell’Africa». E invece, il desiderio di tutti è di apertura a ciò che succede nel mondo intero, di «avere un orizzonte più grande», dice Cheboryot.
«In più, i nostri ragazzi vogliono scrivere per essere protagonisti del giudizio che sta prendendo la loro vita. Vogliono essere autori e collaboratori di Traces, non solo venderlo. Allora abbiamo messo su una sorta di redazione», spiega ancora Severgnini.

Stessa affezione per le donne del Meeting Point di Kampala, le “donne della Rose”. Tutte comprano la rivista quando esce, anche se non sanno leggere: «Sanno che in quelle pagine c’è il segreto di ciò che ha originato l’esperienza che vivono». Così chiamano i figli, studenti della Luigi Giussani, perché facciano da lettori. E se non possono loro, tocca a Rose.

Cheboryot e i suoi amici sono pronti a iniziare. Anzi. Sono già partiti: «Per scrivere dovremo avere ancora più attenzione a tutto ciò che succederà. Niente sarà più scontato. E la cosa più bella sarà condividere anche con voi, in Italia, le nostre scoperte».